Letteratura

Il '900, un secolo da rivista (letteraria)

Gli Uffizi dedicano una mostra all'epoca d'oro di "La Voce", "Leonardo", "Solaria"...

Il '900, un secolo da rivista (letteraria)

Le riviste sono state lo shuttle del primo Novecento, i cento metri del pensiero, un agguato. Il Novecento per usare il titolo di un libro pubblicato nel 1982 da Giuseppe Langella è stato davvero Il secolo delle riviste. Le riviste, cioè, ne hanno interpretato l'inquietudine, lo spirito contraddittorio, da tarantolato, registrando «il gusto matto per le tesi eretiche e le cause perse in partenza, le pose anticonformistiche, gli arrembaggi corsari e le provocazioni irriverenti» (Langella).

Tra tutte, preferivo La Torre, «organo della reazione spirituale italiana», rivista nata nel 1913, con sede a Siena, a casa di Federigo Tozzi, lo scrittore di Con gli occhi chiusi. Contro «i menestrelli futuristi e gl'immoralisti eunuchi» che «esaltan la macchina e la bestia», i redattori de La Torre si professavano, «a scandalo degli stolti, reazionari e cattolici». La rivista, quindicinale, durò una manciata di mesi, per un totale di sette numeri. Quando, qualche anno fa, m'inventai Pangea, però, il mio riferimento era 900, la rivista diretta da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte, di assassina eleganza. Ne amavo l'impeto avventuriero, l'indole internazionale Cahiers d'Italie et d'Europe e quelle parole di Bontempelli, nell'editoriale d'apertura, auree: «La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne. L'esercizio stesso dell'arte diviene un rischio d'ogni momento». La rivista, trimestrale, durò tre anni; Malaparte si ritirò dal quarto numero; Bontempelli si defilò poco dopo.

La prepotenza dei concetti proferiti, la spavalderia, l'invito al duello, fanno sì che la rivista novecentesca sia, caratterialmente, un'effimera o, se preferite, una stella cometa. I fuochi d'artificio non possono durare a lungo e dopo l'incendio è l'impero della cenere non sempre fertile. Da palestre delle idee, nel secondo dopoguerra, le riviste si mutano in seggi per ideologi; ormai morte, resistono nel web, con curioso capovolgimento dei termini: le fanzine culturali online tendono a imitare la cupa severità o la splendida avventatezza delle antiche riviste cartacee. Poesia, la rivista fondata da Nicola Crocetti nel 1988, che continua a sopravvivere, pur un poco snaturata da Mensile di cultura poetica diffuso nelle edicole a prezzo popolare è diventato, da quando è proprietà Feltrinelli, asettica Rivista internazionale, bimestrale, a prezzo di libro si rifà alla Poesia fondata da Filippo Tommaso Marinetti nel 1905, sgargiante alcova del Futurismo, come a Poetry, il Magazine of Verse ideato e diretto da Harriet Monroe, su cui hanno scritto tutti, da Thomas S. Eliot a Ezra Pound, da Robert Frost e William B. Yeats a Tennessee Williams e Ernest Hemingway; esiste ancora.

Questo per dire che la mostra appena inaugurata agli Uffizi, Riviste. La cultura in Italia nel primo '900 (in atto fino al 17 settembre, a cura di Giovanna Lambroni, Simona Mammana e Chiara Toti), è autenticamente necessaria. Mi spiego meglio. La University of Tulsa, Stati Uniti, ha varato, da tempo, il «Modernist Journals Project» che permette a miseri utenti in vagabondaggio culturale come me di leggersi le riviste miliari inglesi del primo Novecento. Per capirci: potete sfogliare e scaricare sul desktop Blast, il quaderno ideato da Wyndham Lewis e Ezra Pound nel 1914 (galvanizzati dal dinamitardo Marinetti); durò due numeri, in grado, però, di fondare un'avanguardia, il Vorticismo, e mettere a soqquadro il bolso sistema culturale anglofono. Potete leggervi l'impeccabile English Review diretta da Ford Madox Ford (tra i collaboratori: Joseph Conrad, Lev Tolstoj, H.G. Wells), la Little Review di Margaret Anderson (che pubblicò, a puntate, dal 1918, l'Ulisse di Joyce) e Others, la rivista su cui furoreggiava William Carlos Williams e pubblicava Giovanni Papini, tradotto da quel folle di Emanuel Carnevali.

Da noi, a parte il repertorio informatico «Circe», coordinato dall'Università di Trento utile, ma un po' macchinoso non esiste progetto analogo. La mostra agli Uffizi da visitare con il catalogo sottobraccio, con studi, tra gli altri, del Ministro Gennaro Sangiuliano e di Francesco Perfetti, di Anna Nozzoli e di Gloria Manghetti permette di vivere, da dentro, l'epopea delle riviste italiane, senza sudditanza. E ci permette un'ulteriore osservazione. La dico così. Esiste una indubbia poetica della politica. Una rivista propone delle idee, che si legano a un immaginario artistico e lirico. Leonardo, la rivista fondata a Firenze nel 1903, ha un'identità grafica granitica grazie alle incisioni di Adolfo De Karolis, accoglie «un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione... pagani e individualisti, amanti della bellezza», che si rispecchiano nell'estro letterario dei direttori, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. La Voce nasce con un impegno etico «Noi sentiamo fortemente l'eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l'angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito», scrive nell'editoriale il fondatore della rivista, il solito Prezzolini che si tramuta in poetica: nei Quaderni della rivista pubblicano Ardengo Soffici e Piero Jahier, Scipio Slataper, Giovanni Boine e Clemente Rebora, Corrado Govoni e Umberto Saba. Per le edizioni della rivista Solaria, fondata da Alberto Carocci nel 1926, escono Gadda, Vittorini e Pavese; La Rivoluzione liberale nasce nel 1922 come Rivista storica settimanale di politica, eppure, oltre a Luigi Sturzo e a Giovanni Amendola, Piero Gobetti pubblica, nel 1925, Ossi di seppia di Montale. Come a dire: la rivista è il luogo in cui l'idea s'incardina alla profezia, la politica dialoga con la poesia, l'etica si fa estetica.

In alcuni Paesi questo incontro ha dato frutti importanti: in Francia, lo scrittore André Malraux è stato plenipotenziario della cultura di Stato per un decennio; in Uk la carica di «Poet laureate», stabilita dal monarca in concordia con il Primo ministro, non è mero orpello civico: il poeta attualmente: Simon Armitage è garante dell'identità di una nazione. Da noi, un tempo, i poeti erano eletti senatori a vita è capitato a Montale e a Mario Luzi per disinnescarne l'originalità; ora vivono sotto la cappa dell'indifferenza, semmai servili più che servitori dello Stato. Nel 1937, sulla rivista che aveva fondato molti anni prima, La Critica, Benedetto Croce riconobbe in un gesuita inglese poeta, misconosciuto in vita, Gerard Manley Hopkins, lo stigma del genio, un «profondissimo sentimento... innalzato ad ansia, angoscia ed aspirazione morale».

Senza una poetica cioè, uno sguardo infinito la prassi politica resta fine a se stessa, infine infima.

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