Algardi, lo scultore che fa parlare le statue

L'artista del XVII secolo ha lasciato opere di grande potenza espressiva Papi e cortigiane intimidiscono anche lo smaliziato spettatore moderno

Nessun dubbio che sia Bernini lo scultore più potente e più rappresentativo del barocco italiano ed europeo.

Ma sarebbe ingiusto non ricordare un altro protagonista di quella stagione: Alessandro Algardi. Nato nello stesso anno, il 1598 (per altri il 1595), a Bologna si avviò allo studio della pittura e del disegno con Ludovico Carracci, ma il suo istinto lo portava al volume e alla verità mimetica della scultura, cui si applicò a Mantova alla Corte di Ferdinando Gonzaga, realizzando piccole sculture in avorio, argento e bronzo. Questa origine è determinante per la sua scelta estetica, perché certamente Algardi potè studiare la collezione di scultura classica nella collezione dei Gonzaga insieme alla suggestione eroica degli affreschi di Giulio Romano in palazzo Te, prodromi formativi prima del viaggio a Roma, dove Algardi arriva nel 1625, sotto il pontificato di Urbano VIII. E già il suo coetaneo e collega Bernini aveva pubblicato i primi assoluti capolavori: il ritratto di Scipione Borghese , l' Apollo e Dafne, il Davide , esempi di un nuovo dinamismo e di una nuova concezione dello spazio. Né va dimenticato l'altro grande maestro attivo a Roma, Francesco Mochi, di qualche anno più vecchio che aveva licenziato un monumentale Battesimo di Cristo di sicura suggestione. Algardi ha una visione precisa e nitida, basata anche sul restauro e il completamento di statue classiche della collezione Ludovisi, fino a derivarne alcune virtuose imitazioni ispirate allo spirito ellenistico e rinascimentale. Ne è un esempio la figura in marmo nero antico, il Sonno . Algardi parte classico in sintonia con l'altro bolognese a Roma, il Domenichino. E, nella cappella Bandini in San Silvestro al Quirinale, affrescata dal Domenichino, lascia una Santa Maria Maddalena «sollevata in dolce aria di testa, et in espressione di doglia e di sentimento» (Bellori), molto apprezzata e quasi ispirata al bello ideale di Guido Reni. Sono gli anni in cui equilibra questa ispirazione ideale con alcuni esempi di ritrattistica, veri nobili e parlanti: il Cardinale Laudivio Zacchia, il Cardinale Giovanni Garzia Mulini, il Vescovo Ulpiano Volpi. La sensibilità del modellato, il gusto per i particolari, l'attenzione alla diversità dei materiali, impongono Algardi come ritrattista di umanità profonda, la stessa che troviamo anche nei tre ritratti postumi di Muzio , Roberto , e Lelio Frangipane in San Marcello al Corso, tutti concepiti prima del 1638. Algardi cresce e, nel 1638, lo troviamo a Malta autore della grandiosa immagine del Salvatore benedicente, in bronzo , a mezza figura , che ora è sul timpano esterno nella cattedrale di San Giovanni a La Valletta. La personalità dell'Algardi si afferma compiutamente nel 1640, con il gruppo di San Filippo e l'Angelo per l'altare della sagrestia in Santa Maria in Vallicella. Pietro Bellori, teorico della nuova estetica, coglie l'idealizzazione della figura del San Filippo, osservando che le due statue «vivono, e spirano nell'affetto del Santo vecchio, e nella grada soavissima dell'Angelo», evidentemente ispirato a Guido Reni. Un'opera come questa è il viatico per essere nominato principe dell'Accademia di San Luca. Ma la fama di artista è ormai tale da fargli eseguire una commissione nella sua città natale, Bologna, per la chiesa di San Paolo Maggiore, per decisione del Cardinal Bernardino Spada, elegantemente ritratto dal Domenichino. Si tratta della monumentale Decapitazione di San Paolo , posta al sommo di un altare, entro un'edicola con colonne scanalate. Le due figure sono nobili e maestose, senza enfasi e anche più che drammatiche. Singolare la vicenda che ne accompagnò la messa in opera. Algardi le scolpì a Roma e le inviò a Bologna via mare. Dal litorale romano la nave doppiò la Sicilia, per poi risalire l'Adriatico nella direzione di Venezia, da dove sarebbe arrivata a Bologna attraverso canali navigabili. Nel corso del viaggio la nave venne assalita dai pirati che chiesero il riscatto per ciò che trasportava. Trovato un accordo, le sculture giunsero alla sede predestinata. Qualcosa di eroico, di solenne, di vittorioso, le accompagna, nella dignità del martire e anche nella lenta e studiata torsione del carnefice. La reputazione dell'Algardi cresce fino a condurlo nella basilica di San Pietro, per la tomba di Leone XI, già in avanzato stato di elaborazione nel 1644, quando a Papa Urbano VIII succede il nuovo pontefice Innocenzo X, protettore del Bernini, ma estimatore dell'Algardi. Lo dimostra il fatto che le opere più espressive dell'artista sono proprio i ritratti del Papa, nelle diverse versioni in marmo, terracotta e bronzo, che esprimono una umanità dolente e malinconica, molto lontana da quella minacciosa e crudele, colta da Velázquez nel Ritratto coevo. Algardi identifica una forte personalità, non priva di tormenti e forse di rimorsi; e noi ne sentiamo il respiro. Ancora più forte appare nel ritratto della cognata del Papa, la potentissima Olimpia Pamphilj di cui l'Algradi coglie non solo l'espressione arrogante e perentoria, ma una potenza delirante, evidenziata nel manto che si gonfia come una vela. Un episodio indimenticabile, un correlativo oggettivo della condizione interiore di superbia e dominio che caratterizzò la vita di questo personaggio straordinario.

La scultura dell'Algardi parla. Se te la poni di fronte è capace di intimidire anche noi, di chiederci l'obbedienza e la riconoscenza, come quelle prostitute romane con le quali Olimpia riuscì a riequilibrare il bilancio dello Stato pontificio. Nel dialogo fra il Papa, non ancora anziano e la donna così piena di sé, è il primo a soccombere per una ammissione di debolezza. Da una parte il dubbio (ed è del pontefice) dall'altra l'incrollabile certezza del potere (ed è di donna Olimpia), l'Algardi è arrivato a interpretare ogni condizione dell'animo umano. Lo si vede nel ritratto del Cardinale Paolo Emilio Zacchia, sintesi di forza e raffinatezza, e nella sontuosa statua di bronzo di Innocenzo X posta nel palazzo dei Conservatori nel 1650. La sua impresa artistica si compie nell'elaborato pannello con la Fuga di Attila , dove si rappresenta epicamente l'incontro di Leone Magno con il barbaro, vera e propria traduzione in terracotta (per lo scalone del Palazzo Vallicelliano), e in marmo (per San Pietro), di una maestosa composizione di Pietro da Cortona, nella certa luce di Dio.

È questo, secondo il Wittkower, «il più importante legato alla posterità» dell'Algardi, la cui limpida coerenza nell'interpretare l'ideale classico in età barocca, lo rende degno di stare a fianco di Bernini.

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