Controstorie

All'arrembaggio con i marò cercando i terroristi dell'Isis

Sulla fregata Fasan in missione davanti a Misurata per controllare le mosse dei jihadisti e difendere le piattaforme

All'arrembaggio con i marò cercando i terroristi dell'Isis

Dalla Fregata Fasan (in navigazione davanti alle coste libiche)

L'urlo della sirena risveglia la plancia di comando, mette in movimento le torrette delle mitragliatrici binate, trasforma la Fregata Fasan in un formicaio impazzito. «Quello che sentite è l'allarme dei lanciarazzi Sclar, ci daranno copertura con dei falsi bersagli se ci sparano con un lanciamissili anticarro o qualcosa di più grosso», urla, nel frastuono del ponte, il capitano di fregata Giancarlo Ciappina, comandante della Fasan mentre alza gli occhi dal binocolo puntato sul cosiddetto «obiettivo» a un paio di miglia. A vederlo da qui, mentre sputa pinnacoli di fumo tra l'argento del mare e le nubi arrossate dal tramonto, non sembra una grande minaccia. Le sue fiancate rugginose, l'andatura lenta, l'affanno caliginoso vomitato da quel comignolo scrostato, regalano più l'impressione di un relitto alla deriva che non di un potenziale nemico. Ma da queste parti nulla è sicuro. Navighiamo 20 miglia al largo dalle coste libiche di Misurata e davanti a noi può veramente esserci di tutto. Lo Stato Islamico, insediatosi nell'ottobre del 2014 intorno a Derna, nelle zone orientali della Cirenaica, ha conquistato tra gennaio e febbraio la zona di Sirte. Da lì le sue colonne di uomini armati avanzano pericolosamente verso Abugrein, circa 70 chilometri a est di Misurata. In pratica sono molto vicini alla fetta di costa, trenta chilometri a est da Misurata, davanti alla quale naviga questa fregata di 7mila tonnellate, ammiraglia della missione italiana Mare Sicuro. «Il rischio è sempre quello di un attacco asimmetrico. Quel peschereccio senza bandiera di cui non conosciamo la sagoma e di cui non abbiamo registrato la presenza in precedenza può avere a bordo armi e terroristi. E magari attaccare noi o i pescherecci italiani in questa zona. Per questo dobbiamo sapere che bandiera batte e cosa fa», spiega il comandante della missione Mare Sicuro - contrammiraglio Paolo Pezzutti - sceso anche lui in sala comando. La missione Mare Sicuro, scattata nella primavera di quest'anno dopo la decapitazione di 21 cristiani copti a Sirte e le minacce lanciate all'Italia dal Califfato, è un'operazione tutta italiana. Un'operazione diversa rispetto a Triton ed Eunavfor Med, le due missioni europee per il salvataggio dei migranti e la lotta ai trafficanti di uomini. «La nostra - spiega il contrammiraglio Pezzutti - è un'operazione militare a difesa degli interessi nazionali con caratteristiche diverse da quelle del soccorso ai migranti. In caso di necessità partecipiamo alle operazioni di salvataggio e forniamo la cornice di sicurezza a Guardia Costiera e navi civili, ma le nostre finalità sono diverse. Siamo qui per proteggere le piattaforme Eni al largo di Sabratha, prevenire sequestri o attacchi ai danni dei pescherecci italiani, fronteggiare eventuali minacce terroristiche al traffico marittimo e vigilare su contrabbando e traffici illeciti di armi». Per questo anche quel peschereccio ansimante, senza bandiera e senza nome, è nel mirino della fregata Fasan. A bordo, nascosti tra reti ed equipaggio, potrebbero esserci armi, petrolio di contrabbando o anche terroristi. E spetta alla Fasan e alle altre tre navi di Mare Sicuro scoprirlo. Mentre le torrette delle mitragliatrici da 25 millimetri tengono nel collimatore quell'ammasso di ruggine galleggiante, la radio di bordo rilancia il messaggio in inglese con cui chiede al peschereccio d'esibire la propria bandiera. Sul ponte sottostante la squadra di otto fucilieri di Marina del Secondo Reggimento San Marco sta già indossando le tute impermeabili. E il personale di bordo si prepara a calar in mare l'Hurricane Zodiac, il potente gommone utilizzato per gli abbordaggi. Due tiratori scelti del San Marco attendono di capire se forniranno copertura dal ponte della fregata o se terranno sotto tiro il quadrante operazioni dall'elicottero Sh-90 pronto al decollo sul ponte di poppa. «Se non issano la bandiera e non rispondono via radio si ritroveranno a bordo i fucilieri. Se invece s'identificano adeguandosi alle regole di navigazione in acque internazionali - spiega il comandante Ciappina - potremo solo arrivargli sottobordo e convincerli a farci salire. In pratica potremo solo tentare un abbordaggio amichevole per capire chi sono e cosa fanno». Mentre il comandante spiega le possibili alternative, dagli altoparlanti di bordo risuona una voce italiana «Battiamo bandiera libica». Laggiù un uomo, in piedi sul grumo di ferraglia galleggiante, sventola un tricolore rosso, nero e verde con stella e mezzaluna. «A questo punto - ordina il contrammiraglio - non possiamo salire a bordo, ma muoviamoci comunque. Andiamo a vedere se sono veramente pescatori». L'abbordaggio «amichevole» inizia pochi minuti dopo. Mentre i marò a bordo del gommone tengono strette le mitragliette HK Mp5, i due motori da 350 cavalli Penta Volvo fanno letteralmente decollare l'Hurricane nero. I marò, legati ai seggiolini piegano schiena e testa, formano un corpo unico con quella nera sagoma di gomma e d'aria spinta da un turbine di schiuma candida, che la fa rimbalzare da una cresta d'onda all'altra a oltre 50 nodi di velocità. Meno di due minuti dopo l'Hurricane è sotto le paratie scrostate del peschereccio. Dalla fiancata otto faccioni neri guardano incuriositi i marò in assetto da battaglia. Sono tutti africani del Ghana o della Costa d'Avorio, parlano inglese salutano un po' impauriti e un po' divertiti gridando «no terrorist, no terrorist». Dall'alto del ponte risuonano, invece, due voci dal pesante accento siciliano. La scena è surreale. A comandare quella carretta dei mari ci sono due pescatori italiani. Raccontano, in un dialetto quasi incomprensibile, di aver lasciato Mazara del Vallo qualche anno fa per fuggire alla crisi e di lavorare per un armatore libico. Ma si rifiutano di far salire a bordo i militari italiani. «Non teniamo paura devvoi, ma de kelle», urlano facendo intendere di temere che i datori di lavoro libici vengano a sapere del permesso di salire a bordo concesso ai militari italiani. La situazione è ovviamente ambigua, ma in base alle leggi internazionali un «abbordaggio» sarebbe illegale. L'avvicinamento serve però a fotografare da vicino il peschereccio e il suo equipaggio. Fotografie che finiranno nella banca dati in cui sono registrati tutti i movimenti nelle acque antistanti la Libia. In quell'archivio sono state registrate, in questi mesi, tutte le navi che partono da Misurata per attraversare il golfo della Sirte e scaricare nel porto di Bengasi le armi destinate alle formazione jihadiste in lotta con i gruppi legati al generale Khalifa Haftar e al governo di Tobruk. A Zuwara, oltre a seguire le attività dei trafficanti di uomini, la Marina italiana ha monitorato i percorsi delle navi cariche di gasolio di contrabbando in rotta verso Malta. Fino allo scorso ottobre, quando la Banca Centrale di Tripoli ha sospeso i sussidi sui carburanti, quel diesel costava meno di 10 centesimi al litro e veniva venduto sul mercato nero a un prezzo almeno cinque volte superiore. Il guadagno, incassato attraverso le banche di Malta, alimentava l'acquisto di armi e munizioni destinate alla coalizione islamista al potere a Tripoli. Terminata la «bengodi» del diesel a prezzi contingentati, quelle armi vengono ora pagate grazie al petrolio uscito illegalmente dai terminal caduti nelle mani di organizzazioni criminali o terroriste. Un'attività che rischia di garantire entrate incontrollabili allo Stato Islamico se le sue milizie metteranno le mani sui terminal petroliferi di Ras Lanuf, Marsa Brega e Ajdabiya. Per questo le navi di Mare Sicuro sono lì.

Per questo se e quando bisognerà intervenire per spazzare via il Califfato dalle coste della nostra ex colonia quei dati, raccolti in mesi di paziente pattugliamento, diventeranno indispensabili per identificare minacce e obbiettivi da colpire.

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