Politica

Le ambizioni di Nicolas e la malattia di Bruxelles

La presidenza francese dell’Europa, che si aprirà oggi, sarà in grado di giocare, in sei mesi, un ruolo chiave nella storia della costruzione dell’Europa? L’ambizione è questa, e Nicolas Sarkozy vuole lasciare la sua impronta. La vuole lasciare profonda e sfavillante: ieri notte per simboleggiare questa ambizione, la Torre Eiffel è stata illuminata con i colori blu e oro dell’Europa.
Ma che cosa potrà un allenatore di talento, determinato, entusiasta, se la sua squadra non ha un morale da vincitore, se conta molti giocatori malati e se le tribune dello stadio sono vuote di sostenitori? Si può vincere una partita in queste condizioni? Ebbene, è questa la condizione dell’Europa, in questo primo luglio 2008. E già il presidente Giscard d’Estaing - autore del Trattato Costituzionale rifiutato dalla Francia e dai Paesi Bassi nel 2005, e trasformato nel Trattato di Lisbona, a sua volta rifiutato dal «no» irlandese del 2008 - consiglia a Nicolas Sarkozy di condurre una «presidenza discreta», di non dimenticare che la Commissione sarà sempre il Direttore lavori della politica europea e che il Parlamento veglia gelosamente sui suoi poteri. Bisogna tentare - dice Giscard - di far progredire qualche programma preciso. E sembra che, dopo il «no» irlandese, rivelatore ancora una volta dello scetticismo critico dei popoli europei, la Francia abbia ammorbidito la sua posizione.
Aveva previsto di mettere l’accento su diverse priorità. L’ambiente, con la riduzione del 20% dei gas a effetto serra da oggi al 2020. La politica energetica, con l’obiettivo di un’azione comune. Il controllo dei flussi migratori, con la messa in atto di una politica di immigrazione, accettata dall’insieme dei membri della Comunità Europea. Una riflessione sulla Politica Agricola comune. Un progresso nella politica della Difesa. E, problema principale, una discussione sulla politica monetaria e sul ruolo della Bce. Per finire, e nel quadro del trattato di Lisbona, la designazione di un presidente dell’Europa e di un responsabile della politica estera dell’Unione. Il «no» irlandese, che impedisce l’applicazione del Trattato di Lisbona, mette evidentemente fine a quest’ultimo progetto, che nell’idea di Nicolas Sarkozy doveva essere prioritario.
Ma non è tutto: le energie della presidenza francese dovranno in buona parte essere impiegate per risolvere la «questione irlandese»: far votare gli irlandesi un’altra volta? Quali garanzie accordare all’Irlanda? Si dovrà mettere in atto il trattato di Lisbona senza tener conto di Dublino?
Che cosa resta dei grandi progetti, come raccogliere le sfide dell’ambiente, dell’energia, dell’agricoltura, della moneta, della Difesa, dell’immigrazione?
Non si rinuncerà a questi progetti, si dice a Parigi. Però verranno favorite le iniziative concrete. Perché i «no» di Francia e Paesi Bassi (2005) insieme con il «no» irlandese, dimostrano l’inquietudine dell’opinione pubblica.
Secondo un sondaggio (di Ouest France, importante quotidiano che copre dipartimenti tradizionalmente favorevoli all’Europa) di domenica 20 giugno, solo il 30% dei francesi risponde positivamente alla domanda «la costruzione dell’Europa costituisce per voi fonte di speranza o di timore?». Cinque anni fa erano il 61%! Per il 33% dei francesi, l’Unione Europea è fonte di timore!
Alcuni «eurofili» attribuiscono questo stato dell’opinione pubblica alla «cattiva comunicazione» sull’Europa, di cui sarebbero responsabili gli uomini politici e i media nazionali. La gente voterebbe «no» o sarebbe scettica, in quanto non sarebbe «ben informata». E l’Unione Europea rappresenterebbe un argomento così complesso che soltanto le élites colte sarebbero in grado di comprenderlo.
Spiegazione rassicurante! Infatti, i popoli europei non si sentono più protetti dall’Unione Europea. Essa costituiva un baluardo contro l’Unione Sovietica. Favoriva la crescita del tenore di vita. Ora non c’è più l'Unione Sovietica, e la globalizzazione spazza via come un uragano le nostre costruzioni economiche e sociali. Le industrie vengono delocalizzate. E nessuna «preferenza comunitaria» viene a proteggere il nostro mercato «interno». I beni e le persone vi entrano con grande facilità!
Infine, anche l’elettore meno informato capisce che non si può decidere «in ventisette»! Un’Europa che funziona solo all’unanimità è un’Europa impotente. E allora l’idea che ogni nazione debba difendere i propri interessi, riprende tutto il suo vigore, da Varsavia a Londra, da Dublino a Roma, e da Berlino a Parigi.


Bisognerebbe avere il coraggio di dire che, se non si prende in considerazione questa realtà, l’Unione Europea continuerà a impantanarsi, anche se si illumina la Torre Eiffel.
Max Gallo
(Traduzione di Rosanna Cataldo)

Commenti