Controcultura

Anarchica come i gatti Giuseppe Prezzolini e la destra che non c'è

Conservatore, laico e mai allineato Ritratto dello scrittore che rivoluzionò (più volte) la cultura italiana e in cambio ottenne l'esilio

di Vittorio FeltriG iuseppe Prezzolini è uno degli autori più citati, ma in pochi l'hanno letto a destra e in molti lo hanno snobbato a sinistra, dove sopravvive il pregiudizio che egli fosse fascista, mentre era solo un disincantato conservatore, consapevole che in Italia non c'era e non c'è nulla da conservare, se non il posto. L'unico che conosce a menadito le opere del grande pensatore è Gennaro Sangiuliano, vicedirettore vicario del Tg1 Rai, il quale qualche anno fa scrisse (...)(...) una puntigliosa e particolareggiata biografia del nostro, rivelandone episodi misconosciuti. Come si evince dalla lettura del pezzo pubblicato qui accanto, dedicato ai gatti di New York, Prezzolini ha una prosa scintillante, avara di aggettivi e avverbi, quindi scorrevole, priva di compiacimenti stilistici; in una parola: moderna che più moderna non si può. E dire che era un signore dell'Ottocento, pressoché coetaneo di Giovanni Papini del quale era amico e sodale.La sua caratteristica di maggior spicco è l'anticonformismo. Un anticonformismo non viziato né inacidito dal cinismo. Egli era semplicemente scontroso, anche un po' burbero, il che lo portava a essere considerato da taluni asociale. In realtà aveva solo un forte senso critico e una capacità straordinaria di sintetizzare in una frase concetti che altri avrebbero esplicitato in venti pagine. Per dimostrare il peccato originale della democrazia si inventò la seguente storiella che cito a memoria. «Un giorno - disse - guardando in strada dalla finestra della mia mansarda a New York, scorsi un poveraccio dormire su una panchina, un mendicante. Lo osservai per alcuni minuti e conclusi: che validità può avere il suffragio universale se il mio voto pesa tanto quanto quello del poveraccio laggiù?». Basta questo per capire i limiti angusti del sistema di governo adottato in Occidente.Affidare al popolo scelte che esso non è all'altezza di fare è pericoloso come affidarle al famoso uomo al comando in solitudine. Che alternativa c'è? Non esiste. Occorre contenere i danni esercitando la prudenza tipica dei conservatori, i quali dubitano delle novità non sperimentate e proteggono ciò di cui si è verificata l'efficacia. Si tratta di una semplificazione che però non sconfina nel semplicismo. Prezzolini era un autodidatta, non seguì mai corsi regolari di studio; ecco perché aveva una cultura mostruosa accumulata negli anni e assimilata grazie a una montagna di libri. La mancanza di titoli accademici non gli vietò di diventare professore alla Columbia University; del resto, perfino il suo referente, Benedetto Croce, non si laureò mai. Piccoli dettagli, ma significativi.Prezzolini parlava perfettamente il francese e l'inglese, però era restio a sfoggiare la padronanza delle lingue straniere. Quando conversava con un connazionale non si lasciava sfuggire una sola espressione che non fosse in italiano. Non come fanno oggi i giornalisti nostrani (bulletti) che in ogni titolo di quotidiano infilano un sostantivo anglosassone. O come quei fessi che per essere fighi non dicono «media», bensì «midia», ignorando che il vocabolo è latino. Sbagliano perché imitano pedestremente gli americani e i sudditi della regina Elisabetta, allo scopo di mostrarsi internazionali. Invece, sono soltanto stupidi. Prezzolini stupido non era, ma l'esatto contrario. Aveva un'intelligenza lucida anche dopo aver compiuto 100 anni. Sono in grado di testimoniarlo.Nel 1982 mi recai a Lugano, volevo intervistarlo per la Tv e la Domenica del Corriere. Prima di procedere, pattuimmo il prezzo della prestazione, 200mila lire, se non ricordo male. Arrivai puntuale nell'appartamento che egli occupava. Mi aprì lui stesso la porta e mi fece accomodare, insieme con mio fratello che mi supportava con la telecamera, nell'ampio ingresso. Si giustificò: «Devo terminare un articolo da inviare al Resto del Carlino, poi mi concedo a voi. Questione di minuti». Udimmo il picchiettio dei tasti della portatile. Il vecchio intellettuale scriveva a una velocità impressionante. Poco più tardi, si rese disponibile all'interrogatorio. Nel frattempo, io e il mio familiare fummo costretti a sorbire un grappino ciascuno, nonostante l'ora alcolicamente antelucana, un liquido micidiale di cui sento ancora il bruciore nelle viscere. Però assai buono.Durante il colloquio egli mi spiegò un fatto. Questo il resoconto. «Mussolini mi andava a genio. Lo appoggiai nella convinzione che avesse i numeri per sistemare il Paese. Nel momento in cui ebbi la percezione che avrebbe vinto, assunsi una decisione: espatriare. Salii sul piroscafo e me ne andai negli Stati Uniti. Non desideravo partecipare alla celebrazione del trionfo. I vincitori piacciono ai cortigiani. Non a me. Mi faceva orrore l'idea di essere un aggregato al potere e di condividerlo con chi ne era al vertice». Aggiunse: è lecito essere fascisti a tempo determinato. E il tempo scadeva nell'attimo in cui il fascismo si insediava e si trasformava in regime autoconsolidante. Ascoltare il personaggio era una delizia. Dai suoi discorsi emergeva un doloroso sentimento antitaliano. Non sopportava i meschini traffici di coloro che si intrufolano nel Palazzo per riceverne benefici utili a campare gratis, tra vari agi. Preferiva assecondare la propria attitudine al randagismo politico e culturale. Mi narrò la vicenda della Voce, da lui fondata e diretta, un giornale illuminante e a quel tempo fuori dagli schemi, che visse nella gloria meno di una decina di anni, ma di cui si conserva memoria. Non altrettanto si può affermare della riedizione montanelliana negli anni Novanta. Indro, estimatore (non so fino a che punto ricambiato) di Prezzolini, riprese la storica testata del 1994, non appena abbandonato il suo Giornale, che indegnamente diressi poi io, e ne fece un quotidiano di scarsa fortuna, tant'è che nel 1995 chiuse i battenti. Ma questo, l'immenso Giuseppe, non era in condizione di immaginarlo, perché morì sei mesi dopo aver compiuto un secolo (nel 1982).Data l'epoca, l'intervista ebbe una discreta risonanza. La Domenica del Corriere, allora guidata da Antonio Terzi, un gigante, la pubblicò con evidenza con tanto di fotografie evocative della umana vicenda prezzoliniana. Un personaggio che ha inciso nel cuore di chiunque non si sia integrato in questo Paese di opportunisti fascisti e poi comunisti o democristiani, tutti impegnati a sbarcare il lunario senza fatica, senza sacrifici, senza onestà. Quando gli chiesi scherzando come fosse stato capace di giungere a cent'anni in ottima salute, mi rispose con una battuta folgorante: «Non ho mai fatto ginnastica».Era contro ogni luogo comune. Disprezzava quella che oggi definiamo Casta, un plotone di inetti che non appena assisi sullo scranno si paralizzano; fanno di tutto, anche rubare, tranne l'unica cosa per cui sono stati eletti: non legiferano. Cosicché inconsapevolmente si convertono, rendendosi conservatori della poltrona e basta. Sono trascorsi lustri e lustri e nulla è cambiato. La Casta se ne infischia di chi l'ha votata. I nostri codici prevedono ancora il vilipendio al capo dello Stato, il reato di opinione, ne sa qualcosa Storace che rischia la galera per avere detto a Napolitano chi è Napolitano.Nel 2016 si ruba come nel secolo scorso con il pretesto che la politica (e soprattutto la famiglia) costa cara. Prezzolini diceva che l'Italia va avanti perché ci sono i fessi, che lavorano, pagano e crepano. I furbi godono e non fanno null'altro. Provate a dargli torto. Egli, per quanto nella ragione, non sarà mai un faro in questo Paese di giustificazionisti. Neanche un lumino.

Cimiteriale.Vittorio Feltri

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