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Dopo di noi. I disabili dimenticati

Vedere madri di 80 anni, stanche e fragili, che assistono da sole il figlio disabile di 50 anni ci sbatte in faccia un enorme fallimento: la legge "Dopo di noi" non funziona come dovrebbe

Dopo di noi. I disabili dimenticati

Vedere madri di 80 anni, stanche e fragili, che assistono da sole il figlio disabile di 50 anni ci sbatte in faccia un enorme fallimento: la legge «Dopo di noi» non funziona come dovrebbe. Non ancora. È stata pensata per garantire una vita in autonomia «protetta» ai ragazzi non autosufficienti anche quando i loro genitori non ci saranno più o saranno troppo anziani e non avranno più le forze per aiutarli. È stata scritta per inserirli in case famiglia anziché in istituti e strutture assistenziali come avveniva fino alla fine degli anni Settanta.

Tuttavia al momento, su 150mila famiglie che avrebbero diritto a questo percorso, solo 8mila ne beneficiano. La legge 112 è ufficiale da otto anni ma è ancora un groviera pieno di buchi e lacune da colmare. O meglio: sulla carta funziona benissimo ma va tradotta in realtà.

Però c'è una buona notizia: abbiamo un ministero alla Disabilità e da maggio un tavolo tecnico che sta lavorando per riformare il provvedimento, assolutamente utile nelle sue intenzioni. Ora, è presto per dire quando la macchina viaggerà a pieni motori, ma è già qualcosa.

«Vogliamo partire dalla norma e migliorarla, ampliarne le maglie per garantire un durante e dopo di noi che sia un reale percorso di accompagnamento alla vita autonoma e, per quanto possibile, indipendente per le persone con disabilità. Dobbiamo renderla una legge più compresa e applicabile» è la promessa del ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli. Anche perché un Paese democratico che ha improntato il suo sociale su un modello di Welfare come il nostro (con la persona al centro) deve capire l'angoscia che provano i genitori di un ragazzo disabile a pensare che un giorno sarà solo. E non la può ignorare.

I SOLDI NON SPESI
Il punto di partenza per correggere il tiro è lavorare sui motivi per cui non sono stati utilizzati tutti i soldi disponibili ad applicare la legge del 2016. Sì, i soldi. Quelli che alla fine non mancano mai ma non vengono utilizzati come si dovrebbe.

L'anno scorso la Corte dei conti ha firmato una relazione impietosa secondo cui, sui 466 milioni stanziati dal governo in sette anni, ben 226 non sono stati spesi. Cioè, c'erano e nessuno li ha ricevuti. Quasi non servissero. Il motivo? Molte Regioni non hanno presentato al ministero il resoconto dei loro progetti nei tempi stabiliti. La beffa è che i tempi di consegna non erano proprio risicati ma consistevano in un lasso di ben due anni. Evidentemente, scoraggiati dalla burocrazia e da qualche procedura nuova, negli uffici di 13 Regioni su 20 molti funzionari degli assessorati regionali hanno lasciato perdere. Con il risultato che 140mila famiglie vivono ancora nell'incertezza e tra mille difficoltà, tamponate - grazie al cielo - da associazioni di volontari e cooperative no profit. Eppure quei soldi servono: alla singola famiglia, alla realizzazione delle case famiglia, alla formazione degli educatori e degli assistenti. A far decollare un progetto che, una volta a regime, sarà un'enorme lezione di democrazia.

LA LINEA DURA
Pensare che una riforma non decolli perché il modulo è difficile da compilare è avvilente. L'Anffas (Associazione delle famiglie e persone con disabilità intellettive) ha esplicitamente chiesto allo Stato di commissariare «senza indugio» tutte quelle Regioni e quegli «ambiti inadempienti» o di rimuovere i funzionari che non fanno il loro dovere piuttosto che ritardare o ritirare i finanziamenti e penalizzare chi invece ne avrebbe bisogno. «Non è possibile che nessuno si assuma la responsabilità di così tanti soldi non spesi e di così tante famiglie che non hanno trovato una soluzione per i propri figli. La legge è molto chiara e utile, va solo applicata» è la posizione di Roberto Speziale, presidente Anffas.

COME MIGLIORARE LA LEGGE
Dopo la commissione di maggio, sono stati formati dei tavoli di lavoro di esperti per sviscerare ogni dettaglio del provvedimento, semplificarlo, e migliorarlo. Entro ottobre le sotto commissioni formuleranno le proposte. Tra gli obbiettivi ce ne sono due prioritari. Uno: dare continuità a ogni progetto avviato perché non duri solo una manciata di anni ma accompagni le persone con disabilità per la vita. Due: far conoscere le iniziative e i diritti dei disabili con campagne di informazione capillari perché non ci siano diseguaglianze e «buchi» di assistenza in alcune regioni.

«Bisogna garantire a tutti i disabili di poter potenziare la propria indipendenza con percorsi che cominciano dai 15-16 anni con un lavoro extra scolastico - spiega il presidente Anffas -. Noi chiamiamo l'avvio all'indipendenza palestra delle autonomie: è un iter che accompagna i ragazzi in un lento e graduale distacco dalla famiglia per essere inseriti in case famiglia. Ovviamente nei loro nuovi «nuclei famigliari» ci saranno tutor e persone che li assisteranno. Ma è giusto che, per quanto possibile, diventino autonomi e vivano con i loro amici: l'effetto emulativo e lo spirito di competizione fanno molto nel percorso verso l'autonomia. Insomma, non vogliamo ci sia mai più, a un certo punto della vita dei disabili, la spasmodica ricerca di un posto letto dove piazzarli. Ma vogliamo confezionare un abito sartoriale cucito su misura su ognuno di loro».

Primo nemico da combattere: la burocrazia. Anche prima della legge Dopo di noi, dal 2006 al 2013, del fondo di mezzo miliardo costituito per le disabilità, sono stati spesi solo 240 milioni, meno della metà.

Una delle migliorie che verrà apportata al provvedimento riguarda anche le modalità per attingere ai finanziamenti: oggi spesso i soldi sono vincolati per chi è «interdetto», e quindi a una piccola fetta di persone con disabilità, ma potrebbero essere estesi a tutte le disabilità e ai tutori.

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