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Eredità Del Vecchio: gli occhi del fisco sullo scontro tra figli. Ed Essilux finisce nel mirino di Parigi

Le tensioni che da più di un anno tengono aperto il testamento proiettano un'ombra sul gruppo

Eredità Del Vecchio: gli occhi del fisco sullo scontro tra figli. Ed Essilux finisce nel mirino di Parigi

È accaduto. Leonardo Del Vecchio probabilmente aveva previsto tutto, ed è per questo che per tempo aveva deciso di nominare a vita i cinque amministratori di Delfin, la finanziaria di famiglia che possiede la maggioranza relativa di EssiLux e Covivio, oltre alle partecipazioni in Mediobanca, Generali e Unicredit, un patrimonio valutato circa 32 miliardi. La realtà però sta superando le sue più temute previsioni. A un anno abbondante dalla sua scomparsa gli otto eredi, cui è destinata una ricchezza stimata in circa 4 miliardi a testa, non hanno ancora chiuso il testamento e, anzi, si stanno dilaniando con litigi a mezzo stampa, probabilmente ignorando che in questo modo rischiano di sbriciolare la straordinaria ricchezza cumulata dal fondatore in 60 anni di successi imprenditoriali. E siccome è costume che più un'eredità resta aperta e più il fisco vuole vederci chiaro, non sorprende che, anche in seguito al clamore suscitato dalle tensioni crescenti, le Agenzie fiscali di Italia e Francia abbiano di recente avviato indagini sulla galassia delle proprietà, con un faro puntato in particolare sull'ultima residenza di Del Vecchio nell'ipotesi che non fosse Montecarlo come si è sempre pensato, bensì Beaulieu-Sur-Mer, in terra di Francia. Se mai ciò fosse provato, sarebbe per gli eredi una catastrofe capace di trascinare nel gorgo la stessa EssiLux, che a causa delle rilevanti tasse di successione (in Francia per alcuni beni si arriva al 60%) finirebbe fatalmente sotto il controllo di Parigi.

Gli eredi di Del Vecchio non sembrano essere consapevoli che mettendo in difficoltà pubblicamente gli amministratori di Delfin, in particolare il presidente Francesco Milleri (il manager che l'imprenditore di Agordo ha fortemente voluto come successore, al punto di affidargli anche la guida di EssiLux «blindandolo» con un legato che vale 380 milioni affinchè possa resistere alle pressioni esterne e interne), rischiano un clamoroso autogol indipendentemente dall'esito delle indagini fiscali. Il capolavoro di Del Vecchio, realizzato in tandem con Milleri, è stato infatti l'annessione attraverso Luxottica del gruppo Essilor, facendola sembrare una conquista alla pari. Solo così i due sono riusciti a realizzare una fusione particolarmente complicata, come peraltro lo sono molte delle operazioni realizzate in un Paese sciovinista come la Francia. Sicchè oggi EssiLux è un colosso italo-francese che vale 75 miliardi di euro ma con la testa in Italia, nonostante il business originario di Luxottica sia ridotto a una quota minoritaria dei ricavi. Una realtà globale che ha cambiato pelle in pochi anni e che attualmente dà lavoro direttamente e indirettamente a oltre un milione di persone.

EssiLux è però anche un'azienda che, per le difficoltà che hanno accompagnato la sua nascita, si regge su equilibri delicati, all'interno dei quali la credibilità del management pesa tanto quanto quella degli azionisti (Delfin controlla il 32,3% a fronte della componente francese che può contare sul 10% circa) ed è fatale che morto il fondatore ci si interroghi sulla continuità della governance, visto che ancora oggi a Parigi c'è chi ambirebbe a tornare sulla tolda di comando.

Tutto ciò Leonardo Del Vecchio lo sapeva bene, ed è per questo che ha fatto sì che il pugno di manager insieme al quale aveva consolidato l'impero (oltre a Milleri, Romolo Bardin e Mario Notari) fosse inamovibile alla guida di Delfin: la loro rimozione è infatti possibile solo con il voto unanime degli otto eredi. Ebbene, questa stabilità ora viene però gravemente minata. Quando sui giornali si legge che tre figli del fondatore (Luca, Clemente e Paola) sono contro il management di Delfin, quando un settimanale finanziario definisce Milleri «traballante», è normale che Oltralpe si interroghino sulla solidità del comando. Se mai si arrivasse alla sfiducia o, peggio, alla decisione dei manager di sbattere la porta stanchi della tiritera, che ne sarebbe dell'azienda, con un'azionista di maggioranza così lacerato al proprio interno? I francesi, si sa, hanno nel loro dna una forte componente dirigista. E non sarebbe la prima volta che, di fronte a una realtà ad alta densità occupazionale divenuta improvvisamente instabile, mettano in atto azioni di forza. Ma come si è arrivati a tanto? Perché Luca, Clemente e Paola Del Vecchio, diversamente dagli altri eredi che invece vorrebbero chiudere il più rapidamente la partita, insistono nelle loro rimostranze fino a rischiare di delegittimare chi, a fianco del padre, ha contribuito a consolidare l'immensa ricchezza loro destinata? Possiamo supporre che al fondo vi siano antipatie e invidie personali, come spesso accade quando ci sono da dividere potere e patrimonio. Anche se nel caso dell'eredità Del Vecchio si tratta di attuare volontà testamentarie ben precise, supportate da dichiarazioni pubbliche in vita secondo le quali il fondatore mai avrebbe voluto i propri figli in ruoli di comando nell'ambito aziendale. E tuttavia, visto che a fianco dei «ribelli» si muovono professionisti del calibro di Vincenzo Mariconda, un avvocato di grande prestigio e pretese, è pensabile che dietro tanta rigidità ci siano anche questioni economiche rilevanti, e magari il desiderio di rendere liquida subito parte dell'eredità costituita principlamente da partecipazioni azionarie.

Per questo in ambienti finanziari si fa strada l'idea che Luca, Clemente e Paola, del tutto indifferenti alle volontà espresse dal padre di tenere unito il patrimonio, abbiano quale obiettivo ultimo la distribuzione proporzionale delle quote custodite nella cassaforte Delfin allo scopo di monetizzarle. Magari a cominciare dal 19,8% di Mediobanca e dal 9,8% di Generali (insieme valgono non meno di 5 miliardi), vanificando in tal modo il disegno del padre di rendere sempre più solida la sua creatura anche dopo la sua dipartita. Nei giorni scorsi si è data notizia che gli i figli di Silvio Berlusconi hanno chiuso l'eredità in soli tre mesi, rispettando appieno le volontà paterne, anche nell'assegnazione dei legati.

Un grande senso di unità familiare, ma anche una mossa avveduta: quando il fisco si muove in architetture patrimoniali tanto complesse, sia pure strutturate con perizia, non si sa mai dove può arrivare a colpire.

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