Politica

La Banda della «Uno bianca» implora il perdono

I fratelli Savi scrivono una lettera alla madre di una vittima. E lei risponde: «Non voglio nemmeno leggerla»

Emiliano Farina

da Bologna

Per farsi idealmente perdonare ben sette anni di omicidi, sparatorie e rapine hanno impiegato più del doppio del tempo. Ieri durante la quindicesima cerimonia di commemorazione della strage del Pilastro a Bologna, Anna Stefanini, madre di Otello, uno dei tre carabinieri uccisi dalla banda della Uno bianca, ha ricevuto una lettera di perdono da parte dei fratelli Savi, condannati all'ergastolo per il delitto del figlio.
Un messaggio inatteso che s'infila improvvisamente tra le pieghe di una ferita che continua a sanguinare dalla notte del 4 gennaio del 1991 quando i tre fratelli-poliziotti spararono a sangue freddo al figlio della Stefanini e ad altri due commilitoni (Andrea Moneta e Mauro Mitilini) di pattuglia nella periferia della città. La donna non ha commentato il contenuto della lettera perché appena l'ha aperta è rimasta sconvolta, richiudendola subito. «Non so nemmeno se la leggerò - ha dichiarato - e, nonostante abbia fede e creda in Dio, non riesco a perdonarli ma prego per loro affinché il Signore gli faccia capire cos'hanno fatto. La cosa più dolorosa è che mio figlio non ci sia più. Aveva soltanto 22 anni e tre mesi». E comunque non è ancora chiaro se la lettera sia stata firmata da tutti i fratelli Savi, oppure soltanto da qualcuno di questi.
Se la signora Stefanini sembra tentennare sulla possibilità del perdono, o comunque su una sorta di espiazione ultraterrena, è inamovibile sulla carità giudiziaria. «Non sono favorevole alla pena di morte ma chiedo che la pena sia certa. Se c'è una condanna all'ergastolo, è giusto che i colpevoli scontino almeno trent'anni».
E sul tema del perdono - sia privato che giudiziario - è intervenuto anche il pubblico ministero del capoluogo romagnolo, Valter Giovannini, che rappresentò l'accusa nel processo contro la banda emiliana. «Dietro il messaggio dei fratelli Savi non c'è nessun pentimento, ma forse esiste la speranza di avere benefici di legge. Da magistrato - conclude Giovannini - non credo al ravvedimento di chi si è macchiato di delitti così orribili».
A fare da tramite alla consegna della lettera di perdono è stata la Curia di Bologna. E proprio nell'omelia durante la messa di suffragio dei tre carabinieri, il vescovo ausiliare della città, monsignor Ernesto Vecchi, ha sottolineato come «la richiesta di perdono merita rispetto quando nasce da un sincero pentimento e accetta l'espiazione della pena come riparazione del male compiuto».
Le scorribande dei Savi terminano la mattina del 3 novembre del 1994 quando due poliziotti riminesi (Luciano Baglioni e Pietro Costanza), dopo aver confrontato identikit, date e orari di omicidi e rapine, imboccano la pista giusta. Dopo un pedinamento riescono a risalire a tutti i componenti di una banda troppo esperta di armi, posti di blocco e vie di fuga per non essere dei poliziotti. Stessa divisa, stessa preparazione professionale ma obiettivi decisamente diversi. Dietro quella Uno bianca ritrovata con la targa semicancellata, una scia di crimini iniziata nel 1987 lunga 24 morti, 102 feriti e 103 azioni criminali tra assalti a campi nomadi, supermarket, banche, distributori di carburante e caselli autostradali. Sette anni di terrore pagati con una condanna all'ergastolo che porta la data del 6 marzo 1996.

E con la costituzione di una società ad hoc: l'Associazione delle vittime dei fratelli Savi.

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