Politica

La banda di famiglia da 100mila euro al mese

Furti, spaccio e banconote false: un’inchiesta svela gli affari illeciti di 43 nomadi in Piemonte

Nadia Muratore

da Torino

Accanto alle piccole e medie aziende italiane ce ne sono altre che prosperano in un cono d'ombra, nascoste nelle baracche fatiscenti dei campi nomadi e il cui guadagno, naturalmente esentasse, arriva spesso ai centomila euro al mese. Sono le aziende a conduzione familiare rom, che trafficano in ogni tipo di affari illeciti: spaccio di droga, emissione di soldi e titoli bancari falsi, truffe agli anziani, furti in casa, sfruttamento di minori. La loro capacità imprenditoriale nel campo del crimine si deduce dalle parole scritte in una custodia cautelare nei confronti di 43 rom definiti «un'organizzazione criminale strutturata ed organizzata che ha fatto dei reati contro il patrimonio e dei furti nelle abitazioni in particolare, l'unica ragione di vita, la loro esclusiva fonte di sostentamento. Gli indagati hanno dimostrato con il loro agire di essere socialmente pericolosi».
Seguendo un'indagine del 2001 della Procura di Mondovì - diretta dal sostituto procuratore Ezio Basso - si fa presto a fare i conti in tasca a un'«azienda rom». Come in ogni attività imprenditoriale che si rispetti, è fondamentale l'organizzazione. Quando le città si svegliano e inizia una nuova giornata lavorativa, Renato B., 35 anni figlio di una slava e di un pugliese, porta i bambini in sua custodia alla stazione di Carignano, piccolo centro alle porte di Torino. I quattro figli e i due nipoti di un'età compresa tra i 13 ed i 7 anni salgono sui treni per andare a «girare», cioè a rubare, a Cuneo, Biella, Ivrea, Alessandria, Aosta e d'estate anche in Liguria, Umbria, Marche e Toscana, dove i turisti sono facile preda di furti e truffe. «Quanto portano i miei bambini?» dice Renato a un connazionale «almeno 500mila lire al giorno e 20 grammi di pane (oro). Altrimenti li lascio in giro nei villaggi a prendere - cioè a rubare - fino a notte». Si parla di lire perché l'indagine è iniziata alla fine del'99. «Anche io alla vostra età entravo nelle case a rubare - spiega Renato con tono di voce minaccioso - e se arrivate a casa con meno di 400mila lire questa sera vedete come va a finire». Durante il giorno questi piccoli predatori sono incitati dai genitori a rubare e vengono «telecomandati» via telefono. E Renato, capo indiscusso del suo nucleo familiare e di quello dei cugini, sovrintende tutto e gestisce gli affari importanti. «Da questa truffa - spiega il caporom al fratello - tiro fuori quaranta milioni e mi compro un terreno». Le truffe vengono eseguite vendendo titoli bancari contraffatti e banconote false, utilizzando anche la compiacenza di alcuni direttori di banca spagnoli: «Lui sa tutto - dice Renato intercettato mentre parla con la moglie - ma lavorare in Spagna non mi piace, lì se ti scoprono sono troppo severi». Spesso il pagamento non viene fatto in denaro ma con la droga: «Mi paghi con la bianca così poi la rivendo al doppio del prezzo». Ha un ruolo importante anche la moglie Mira specializzata nel realizzare documenti falsi. «Vuoi un passaporto o una carta d'identità? Non c'è problema, mia moglie è brava». Come un vero manager Renato gira con una Mercedes scura, comprata regolarmente, e impartisce ordini ai suoi parenti-dipendenti utilizzando tre cellulari diversi. È attento: «non parlare al telefono di queste cose, quelli magari ci intercettano», molto accorto: «non voglio fare affari con quello, è un truffatore, uno zingaro» e dimostra una certa professionalità e un pizzico di razzismo: «Le cose io le faccio bene, sono una persona seria. Siamo cristiani noi, mica arabi». E sa anche quando è il momento di dire basta: «Roberto - grida al fratello bestemmiando - questa volta se ti prendono ti danno dieci anni. Hai rubato quattro macchine in un giorno». Non ha mai un attimo di riposo e quando torna al campo controlla la merce rubata dai bambini e decide a quale ricettatore rivenderla: «Questo anello è prezioso - dice alla moglie - chiama l'israeliano di Milano. La catenina vale poco, cerca il ragazzino, quello è scemo se la compra lo stesso». Poi capita anche il colpo di fortuna, un bottino inaspettato che va gestito con cautela. «Renato ho fatto centro - grida al telefono il fratello Roberto - ho preso un anello che al commercio normale vale un miliardo e 450 milioni di lire. Questa volta ci sistemiamo». «Ma ti ha visto qualcuno, hai fatto attenzione?» si accerta premuroso il caporom. «Certo, sono mica un rapinatore. Io sono un artista e rubare è il mio sport preferito». I soldi ricavati da furti, truffe e rapine, sono investiti in terreni e immobili nei paesi dell'Est.

Forse prima o poi anche loro vorranno tornare a casa e mostrare come in Italia abbiano fatto fortuna.

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