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Bar, musica e niente velo. La movida nascosta a Riad

Le ragazze escono da sole, frequentano locali e guidano. Ma è davvero una svolta riformista?

Bar, musica e niente velo. La movida nascosta a Riad

(Riad) Laila e Aisha, chiamiamole così, si presentano puntuali davanti al nostro hotel alle dieci di sera. La scena di quei due europei (il sottoscritto e il fotografo Lorenzo Meloni) fatti accomodare sui sedili posteriori del Suv dalle due ragazze velate solleva i sorrisini, neanche troppo discreti del personale indiano e filippino. Laila li scruta seccata. «Cosa vuoi che ne sappiano questi». In effetti il passaggio dalla reception, dove le donne sono solo sacchi neri con due occhi e un naso, all'interno del Suv è un salto in una realtà parallela. Giusto il tempo di abbandonare la rampa dell'hotel e l'abitacolo vibra sotto le note di un David Guetta a tutto volume mentre Laila e Aisha tirano lunghe boccate di sigaretta elettronica. «Da queste parti oso - alle donne non era vietato fumare?». Una risata mi sommerge. «Anche guidare, ascoltar musica, cantare e portare in giro due tipi come voi», urla Aisha. «Sì, certo s'intromette Laila , due anni fa voi sareste stati già in galera e noi davanti al boia... Ma ora va così».

Sbircio dai finestrini oscurati. La King Fahd road è un brulicare di Suv, Mercedes e Bmw. Trasportano uomini soli o famiglie con torme di bimbi e donne rigorosamente coperte. Ma qui e là fanno capolino anche le teste velate delle donne sole al volante. Venti minuti ed eccoci a Sulheimania il quartiere nord di Riad in cui Leila e Aisha promettono di farci scoprire l'Arabia Saudita che non t'aspetti. Leila m'indica l'entrata del Basil, un'ampia vetrata dove la bianca scritta luminescente illumina una fila di ragazzi e ragazze in attesa. «Questo è il posto, ora aprite gli occhi». Lungo la scalinata, appena oltre l'ingresso, l'Arabia Saudita cambia forme e apparenze. Il velo di Laila e Aisha scivola sulle spalle, l'abaya si apre lasciando intravvedere camicette, calzoni e sandali con il tacco. Tutt'attorno s'arrampica quella che un fedele wahabita denuncerebbe come una sacrilega mescolanza di sessi. La sorpresa ancor più peccaminosa è lassù, al centro del salone, dove ragazzi e ragazze condividono tavoli ricoperti di bibite, hamburger e gelati. Da un palco un cantante s'esibisce in una struggente canzone d'amore accompagnata dalle note dell'«ud» l'antico strumento d'origine persiana progenitore del nostro liuto.

Lorenzo e io ci guardiamo spaesati. Passi per le tavolate di ragazzi e ragazze, passi per le chiome al vento e i veli arrotolati sulle spalle, passi per l'atmosfera fumosa della terrazza dove una decina di ragazze naviga su iPad, scrive al computer o chatta sui telefonini. Quella musica suonata in pubblico e ritmata dai movimenti delle clienti rappresenta per l'Islam wahabita del clero saudita un autentico sacrilegio. Come mai il locale resta aperto? Dov'è finita la Mutawia, la Polizia religiosa agli ordini del «Comitato per la prevenzione del vizio» che, in passato, avrebbe spazzato via il Basil e i suoi clienti a colpi di bastone, frusta, o peggio? Lo chiedo a Laila e Aisha. Mi guardano, sorridono, si passano un dito sulla bocca. Poi dopo un sommesso parlottio concordano una spiegazione. «Fino a un anno fa non sarebbe stato possibile. Ma nel giorno dello al-yawm al-waan, la festa nazionale del 24 settembre, qualcuno ha cominciato a suonare e cantare per strada. Da allora tutto è cambiato. Abbiamo iniziato a guidare l'auto, uscire da sole e scoprire posti come questo. Poi si è sparsa la voce che l'abadya, la tunica nera non era sempre obbligatoria. Almeno non ovunque». Ascolto confuso. Due tavoli più in là due ragazze poco più che diciottenni lasciano scivolare il velo agitano mani e braccia a ritmo di musica. «Volete dirmi azzardo - che è tutto merito del principe ereditario Mohammed Bin Salman...». Gli occhi delle due amiche si abbassano. «Quel nome qui non si pronuncia non chiedere di lui non lo sappiamo meglio non saperlo». Quel che Laila e Aisha preferiscono non raccontare me l'ha spiegato, giorni prima, un diplomatico di base a Riad incontrato a un ricevimento. «Mohammed Bin Salman non è né un benefattore, né un liberale, ma è talmente spregiudicato nel contrapporsi all'Iran, alle minoranze sciite e alla Fratellanza Musulmana, da poter negoziare qualsiasi concessione con i vecchi capi religiosi wahabiti. Li ricopre di denaro e li accontenta con la decapitazione di qualche leader delle minoranze sciite come lo sceicco Nimr al Nimr mandato al patibolo all'inizio del 2016». O, aggiungiamo noi, dei 37 fra leader e militanti sciiti, omosessuali e fratelli Musulmani mandati al patibolo ad aprile. L'apparente clima permissivo di posti come il Basil, la riapertura dopo 35 anni dei cinema ed eventi come il concerto di David Guetta esibitosi a Jedda nel dicembre 2018 davanti a 50mila giovani sono insomma un'illusoria cornice di accondiscendenza e libertà apparente. Una cornice indispensabile per accreditarsi come un riformatore. Una cornice dietro la quale occultare gli orrori dei bombardamenti costati la vita a migliaia di yemeniti in Yemen e, sul fronte interno, gli arresti, i processi farsa e le eliminazioni di dissidenti e oppositori.

Ma anche nelle notti del Basil non manca la paura. Una ragazza senza velo mi si avvicina implorante. «Per cortesia puoi cancellare la mia immagine». La guardo stupito. «Di cos'hai paura? Il locale è legale perché dovrebbero prendersela con te?». Lei mi guarda ancora più stupita. Cancello la foto, la faccio chiacchierare un po'. Ha studiato negli Usa parla un perfetto inglese. Lentamente si lascia andare e, alla fine, lo dice. «Guardati attorno, qui ci conosciamo tutti, siamo tutti figli di gente che conta. Ma non tutti accettano quello che vedi. Mio padre non ha problemi, ma per i suoi fratelli non è così.

Loro, se si accorgono che vengo qui, possono anche farmi ammazzare».

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