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A Bari si spegne il calcio in bianco e nero

È finito un calcio. Gli anni Ottanta del pallone se li porterà dietro una firma che elimina dal calcio anche i Matarrese. Si vende per campare, si vende perché forse non ci si trova più. Ciao ciao. Gli ultimi giapponesi, i reduci, gli intramontabili, lasciano dopo aver visto gli altri della loro generazione abbandonare uno a uno: Fraizzoli, Pellegrini, Farina, Boniperti, Anconetani, i conti Pontello, Viola, Scibilia, Ferlaino, Lugaresi, Massimino, Jurlano, Rozzi, Garonzi. I Matarrese c’erano. I Matarrese ci sono stati: hanno resistito alla fine della Democrazia cristiana, alla dinamite che ha sbriciolato la loro Punta Perotti, al sali e scendi tra A e B, ai diritti tv, all’arrivo di nuovi padroni e di nuovi sistemi, alle vittorie e alle trombature in Lega, Federazione, Uefa e Fifa. Ultimi esemplari di quella genia di presidenti un po’ matti, poco imprenditori e molto genuini, quelli per cui molti, magari anche troppi, adesso sentono nostalgia: perché ricordavano il primo calcio da ricchi, i primi acquisti milionari e anche i primi immensi bidoni. Era un mondo di improvvisatori sinceri, come Angelo Massimino che per convincere il brasiliano Luvanor ad andare a Catania gli offrì come benefit un’auto: quello accettò, arrivò e scoprì che la macchina era quella che fino a poco tempo prima era stata di proprietà della figlia del presidente.
Non ci si ritrova più nel pallone di oggi, così si vende attraverso un mediatore a qualcuno che neanche si conosce: si sa solo che gli aspiranti compratori sono texani, non c’è giudizio o morale, c’è solo la considerazione che c’è una stagione per tutto e certe volte bisogna capire che la propria è passata. Poi se è bene o male lo decide il caso e la fortuna: ai Matarrese è andata ad alti e bassi, come per molti anche se non per tutti. È andata che adesso tutti pensavano che non avrebbero mollato: la promozione del Bari in A dopo otto anni, la possibilità di rifarsi degli investimenti fallimentari delle ultime stagioni, l’entusiasmo forse un po’ soffocato in fretta, ma reale, di squadra, città e club, lasciavano pensare che avrebbero resistito. Si firma per lasciare, per chiudere una porta aperta 32 anni fa, quando presero il Bari convinti di farne la Juventus del Sud.
Non c’era ancora la tv a colori, all’epoca. Adesso hanno appena chiuso un contratto con Sky per il satellite e poco fa un altro con Mediaset per il digitale terrestre. Forse se tornano indietro col pensiero capiscono che non è più tempo per loro. Forse se vanno a rivedere gli almanacchi dell’epoca si rendono conto che sono davvero rimasti da soli a rappresentare un tipo di calcio casereccio, a metà tra “Ultimo minuto” di Pupi Avati e il classico “L'Allenatore nel pallone” di Sergio Martino. Era l’era del presidente ruspante, un po’ sgrammaticato, in perenne bilico tra il tifo e l’occhio al patrimonio che il calcio sta prosciugando. Tempi di battute e di frasi storiche, tipo questa di Costantino Rozzi: «Io mi sento giocatore, perché lotto pure io con gli arbitri, tra me e Mazzone sembra una guerra. Ma ci sentiamo pure noi incitati da queste canzoni, da questo gridare, da questo sventolare di bandiere». Ai Matarrese è mancato l’amore della gente. Bari non è mai stata in alto più di quanto abbia fatto con loro, eppure gli ultimi anni sono stati un calvario fatto di insulti e di lamentele, di recriminazioni legittime e di pretese assurde. Bari in Europa, voleva la gente. Forse era il caso di accontentarsi che quella straordinaria querelle con Gaucci si trasformasse in realtà: Vincenzo Matarrese stava rientrando sul pullman che l’avrebbe riportato con la squadra in Puglia, dopo una vittoria a Perugia. Gaucci gli corse alle spalle, insultandolo in diretta tv. Matarrese tirò fuori la testa dalla porta del bus e gli rispose così: «Siamo di serie A, Gaucci. Siamo di serie A». Non ce ne saranno più sceneggiate così: non ci sarà più Gaucci e a questo punto non ci saranno neanche i Matarrese. Loro che da perfetti e imperterriti democristiani erano passati da quel tipo di calcio, a quello dei Gaucci, appunto. Così come quello dei Tanzi, dei Cragnotti, dei Cecchi Gori. Tutti passati, tranne loro. Fino a ora, anzi fino a queste ore. Finisce un calcio, certo. Ci sarà un altro, così come ci saranno altri presidenti. Né meglio, né peggio. Bisogna solo accettare che il tempo passa.

E il calcio no.

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