La recente e drammatica vicenda della piccola Maria bielorussa ha acceso un interesse umano e mediatico sul grande fenomeno delle adozioni e delle «accoglienze» di bimbi dell'ex Unione Sovietica in famiglie italiane, ma allo stesso modo sta costruendo una griglia interpretativa per l'intero fenomeno che non può e non deve essere visto solo alla luce dei fatti di Cogoleto.
Si è giunti al paradosso per cui le centinaia di famiglie che attendono, da alcuni anni, di concludere il loro percorso di adozione sono rimaste in un cono d'ombra e la loro posizione, prevalentemente critica circa i fatti concernenti Maria, è stata vista come frutto di interessi egoistici se non, addirittura, affaristici. Un secondo paradosso, provocato dal recente fatto di cronaca, è che si è posto sotto una lente di ingrandimento un fenomeno che in realtà è macroscopico. Tutto è iniziato con i viaggi di risanamento dei fanciulli abitanti nelle zone contaminate, pochi anni dopo la tragedia di Chernobyl, di cui quest'anno ricorre il ventennale. In Italia si è sviluppato il fenomeno dell'ospitalità in famiglia che è unico nel suo genere per costanza e per numero di bambini accolti.
Le storie degli incontri tra famiglie e bimbi sono dunque, ormai, migliaia. Alcune sono storie di amicizia tra famiglie italiane e famiglie bielorusse in cui il minore costituisce una sorta di ponte emotivo tra le due culture e le due lingue. Molti dei bimbi di allora, ormai, sono ragazzi che possono «vantare», rispetto ai loro coetanei, l'acquisizione di una ricchezza intellettiva e creativa che si sviluppa proprio dal contatto con culture diverse.
Per i bimbi che provengono da orfanotrofi, tutto questo, alla luce dei fatti di oggi, sembra non essere più considerato sufficiente. Risulta prevalente il pensiero che i reiterati e laceranti distacchi, le fantasie incongrue circa il futuro del rapporto possano nuocere allo sviluppo del fanciullo. Sembra dunque cominciare ad imporsi (anche in Italia) il pensiero che l'accoglienza in famiglia debba escludere i bambini istituzionalizzati al fine di mettere maggiormente al riparo (i bambini, i governi, le nostre coscienze?) da tutti quei problemi che si creano dal rapporto tra una famiglia oblativa ed un minore bisognoso.
Come bielorussa e come psicologa che esercita in Italia e che segue professionalmente alcune associazioni che si occupano dell'infanzia slava, vorrei condividere alcune riflessioni che nascono dalla mia esperienza.
Innanzitutto sgombriamo il campo da possibili equivoci: non sono a favore delle «accoglienze selvagge», che sono quelle che producono gli esiti paventati da coloro i quali sono fermamente contrari all'accoglienza in famiglia dei minori istituzionalizzati.
Ma proviamo ad esaminare il fenomeno. Come riconosceva, già nell'ottobre 2004, la stessa Sovetskaja Belarussia (quotidiano che esprime le posizioni del governo di Minsk), le adozioni nazionali in Bielorussia (la situazione non è dissimile negli altri paesi dell'ex unione Sovietica) riguardano quasi esclusivamente i neonati ed i bimbi fino ai tre anni, questo a dispetto degli inviti e degli incentivi promossi dai governi; i fanciulli in una fascia d'età superiore e quelli con handicap, anche lievi, hanno scarse o nulle possibilità di trovare in patria una famiglia adottiva. Ed è proprio questa la tipologia di bambini che raggiunge l'Italia nei viaggi estivi e natalizi. Io credo che l'accoglienza dei minori istituzionalizzati abbia degli aspetti positivi che non possono essere misconosciuti.
In primo luogo, soprattutto per quei bambini che non hanno mai avuto una famiglia, questa esperienza in Italia può costituire un importante aiuto nella costruzione di una rappresentazione «interna» della famiglia e realizzare l'occasione di sperimentare un modello familiare riproponibile in età adulta.
Il rapporto che si crea con le famiglie «accoglienti» spesso garantisce un sostegno emotivo, che talvolta diviene anche economico, lungo il percorso formativo e professionale del giovane. Tutto questo trova una sua giustificazione in quel libero legame d'amore, formatosi tra adulti e bambino, che, pur non essendo stato caratterizzato dal possesso e da una vera e propria assunzione di ruolo (genitori-figlio), rimane un'esperienza importante e proficua per chi, come i bimbi istituzionalizzati, sarebbe stato destinato, nell'età adolescenziale ed adulta, ad un'assenza di punti di riferimento e supporto oltre che a vivere, sul versante della storia familiare, un vero e proprio deserto emotivo. L'accoglienza degli orfani (o «orfani sociali») in Italia, così come è stata prefigurata, solo all'interno di colonie, da un lato «condannerebbe», senza colpa, chi già vive in istituto a sopportare, anche durante le vacanze, la medesima discriminazione (che sappiamo avere pesanti ripercussioni sull'autostima e sul valore di sé del fanciullo), dall'altro penalizzerebbe quelle famiglie che già hanno instaurato un positivo rapporto con il minore (al quale si dovrebbe spiegare perché, magari dopo alcuni anni di accoglienza familiare, si giunge ad un allontanamento).
Inoltre, non credo che produrrebbe risultati particolarmente «proficui» sul piano del contatto umano di questi giovani stranieri con la società italiana.
Fino ad oggi l'inserimento è stato curato capillarmente dalle famiglie italiane e dai loro eventuali figli che sono stati spesso capaci di favorire la positiva integrazione di questi bimbi nel tessuto umano e sociale che li ospita (spesso rappresentato, non dimentichiamolo, da realtà urbane medio-piccole). Se dovesse prevalere la tesi dell'istituzionalizzazione degli ospiti tutto verrebbe ad assumere un aspetto molto più formale ed artificioso, dal contatto con i pari età italiani all'apprendimento della lingua, anche se realizzato attraverso percorsi ludico-didattici.
Quello che, invece, è stato messo in evidenza dalla vicenda di Cogoleto è un bisogno e necessità delle famiglie accoglienti di una preparazione ad una scelta così significativa. In questo tipo di accoglienza non basta il semplice buon senso e l'amore, proprio perché si viene a contatto con una vita particolarmente fragile e delicata.
Le parole guida intorno alle quali dovrebbe ruotare la futura accoglienza dei bambini istituzionalizzati dovrebbero essere formazione e continuità: formazione delle famiglie accoglienti ed impegno delle stesse (e dei governi interessati) a garantire la continuità del rapporto. La formazione dovrebbe comprendere, per le famiglie, un percorso di consapevolezza sulle motivazioni e aspettative circa la relazione, una riflessione intorno alla supremazia nel rapporto della dimensione affettiva, la gestione delle emozioni implicate, nonché l'acquisizione di una reale sensibilità interculturale che eviti incomprensioni e fraintendimenti.
L'impegno ad una continuità di rapporto (per gli adulti e per i fanciulli) è, invece, ciò che consente di passare dall'attesa che genera angoscia all'anticipazione che produce speranza.
Psicologa responsabile
Centro Psicologia Italo-Russo di Genova