Politica

Le buone ragioni per votare no

Passare in pochi mesi dal mitizzato «eurocentrismo» all’isolamento internazionale non è impresa facile: il governo Prodi ci è riuscito.
La crisi che si è aperta con Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania è senza precedenti perché il linguaggio usato, in particolare dal Dipartimento di Stato e dal Foreign Office, è quello che si riserva ai Paesi inaffidabili, non ai solidi alleati. Umiliante al punto che bisogna chiedersi: cosa ci stiamo a fare a Kabul?
È dai tempi del «Grande Gioco» che l’Afghanistan rappresenta una casella fondamentale dello scacchiere internazionale. Un paese-mosaico composto da diversi gruppi tribali, un ponte tra Oriente e Occidente le cui vicende scandiscono date chiave della nostra storia. Il centrosinistra ha ignorato che la domanda retorica «morire per Kabul» oggi ha un senso, non ha capito che una sgangherata politica estera può produrre danni irreversibili e le furbizie in guerra non pagano. Mai.
E allora chiediamoci, seriamente, cosa fa l’Occidente a Kabul? E cosa dovrebbe fare un Paese del G7 come l’Italia? Val la pena di ricordare che la missione Isaf nasce dopo l’11 settembre 2001, è la naturale prosecuzione di Enduring Freedom, l’intervento armato scaturito dall’applicazione - per la prima volta nella storia - dell’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico. È dalle macerie fumanti delle Due Torri di New York che nasce l’intervento militare contro il regime talebano che proteggeva Al Qaida. I tanti che oggi dimenticano l’origine della missione, commettono un errore storico e strategico.
In Afghanistan la Nato si gioca il suo futuro e l’Occidente una parte consistente del confronto con il terrorismo. Ma il governo, la quasi totalità della maggioranza che lo sostiene, percepiscono la guerra in Afghanistan come un affare lontano, un problema che riguarda al massimo gli afghani e i Paesi confinanti.
Da mesi i Paesi della Nato che in Afghanistan combattono (in prima fila Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada) chiedono più impegno da parte degli alleati. Il governo Prodi ha sempre detto no, pur conoscendo la delicata situazione del teatro operativo. Il centrosinistra fa finta di non sapere che le guerre possono essere rapide, ma la pace va conquistata giorno per giorno e ci vuole tempo. In Afghanistan oggi ci sono circa 32mila soldati, meno che in Kossovo. I talebani vantano un esercito di almeno 12mila uomini e questo significa che la Nato oggi schiera 3,1 soldati per terrorista. Numeri tra l’altro puramente teorici, perché in realtà gli uomini che si possono utilizzare in combattimento sono meno perché le restrizioni all’uso della forza sono ampie, come nel caso italiano. Il rapporto ideale tra soldati Nato e guerriglieri dovrebbe essere di dieci a uno. Ecco perché l’Occidente non riesce a sconfiggere i talebani che mantengono il controllo del Sud dell’Afghanistan. L’interesse della comunità internazionale sarebbe quello di controllare l’intero territorio, stabilizzare l’area e consolidare il governo afghano. Quello che sta facendo l’Italia è l’esatto contrario. Il nostro Paese non solo è la punta di diamante della teoria del disimpegno, ma è giunto al punto di proporre l’appeasement, il compromesso con i terroristi: il segretario del più importante partito della maggioranza di governo, Piero Fassino, è arrivato addirittura a lanciare una conferenza di pace con i talebani. Una mossa che ha avuto un doppio effetto: irritare la Casa Bianca e delegittimare il già fragile governo Karzai.
È questa limitata visione del mondo, questa egoistica idea della democrazia privilegio di pochi, che ha portato a compiere un’operazione come quella della liberazione di Daniele Mastrogiacomo. Lo scambio di prigionieri infatti ha inaugurato una nuova era della guerra talebana, proprio nel momento in cui la guerriglia sta lanciando l’offensiva di primavera contro le truppe Isaf. Non siamo di fronte a un banale incidente diplomatico, perché la trattativa all’Italian Style in uno scenario come quello afghano ha conseguenze militari e strategiche profonde. L’importanza è testimoniata dal fatto - per niente casuale - che mentre le agenzie di stampa internazionali lanciavano le dure critiche di Usa, Gran Bretagna e Germania all’Italia, un autorevole e influente think tank americano, Stratfor, diffondeva un documento allarmante per la sua lucidità. Un Terrorism Intelligence Report di sei pagine firmato da Fred Burton (analista che prima di lavorare per Stratfor era, guardacaso, un alto funzionario del Dipartimento di Stato) inquadra la vicenda come «un precedente», «un caso importante perché segna un chiaro cambio di strategia nell’uso di rapire e rilasciare rapidamente i reporter rapiti», un evento che trasforma i giornalisti in «una merce di scambio» per il «rilascio di prigionieri», un episodio chiave che «potrebbe con molta probabilità sfociare nella cattura di altri reporter o di altri stranieri in Afghanistan». Il caso Mastrogiacomo in pratica «è diventato l'insegna al neon che indica che è aperta la stagione (della caccia) agli stranieri».
Allo scenario a tinte fosche dipinto da Stratfor si aggiunge il pericolo - imminente - per i nostri soldati. Le regole di ingaggio - i cosiddetti caveat - per le truppe tricolori in Afghanistan sono inadeguate rispetto al rischio che si sta profilando. Se un giornalista vale la liberazione di cinque terroristi talebani, quanto può valere il rapimento di uno o più soldati italiani?
È una riflessione che perfino l’angusta politica italiana sarà costretta a fare. Se non altro perché si trova di fronte alla boa parlamentare del rifinanziamento della missione in Afghanistan. Di fronte a questo scenario, il centrodestra deve usare la bussola della responsabilità e della chiarezza.

L’opposizione deve valutare con attenzione se questa politica estera corrisponde ancora a quella di un Paese che fa pienamente e responsabilmente parte della Nato, deve pesare i rischi per i nostri soldati alla luce di questo nuovo scenario, deve assumersi l’onere di dire sì alla missione se ci sono le condizioni per proseguirla, ma deve anche essere consapevole che, per la prima volta, ci sono serie e concrete ragioni per dire no.
Mario Sechi

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