Burroughs contro il virus (della parola)

Un saggio di Alessandro Gnocchi sul ribelle per antonomasia: lo scrittore della Beat Generation

Burroughs contro il virus (della parola)

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo l`incipit di Burroughs. Il virus della parola (Polidoro, pagg. 152, euro 16) di Alessandro Gnocchi, caporedattore del Giornale. La presentazione ufficiale si svolgerà il 19 marzo alle ore 19 presso la Libreria Verso (Corso di Porta Ticinese, 40) di Milano.

Giusto per sapere con chi abbiamo a che fare. William Burroughs nasce a Saint Louis, nel 1914, in una ricca famiglia di industriali a cui si deve l'invenzione della calcolatrice con rotolo di carta. Laurea in letteratura ad Harvard, specializzazione in antropologia, studi di medicina a Vienna, assiste all'ascesa del nazismo, sposa un'amica ebrea solo per metterla in salvo, frequenta amici discutibili, partecipa a un omicidio in compagnia di Jack Kerouac, Bill e Jack occultano il cadavere dell'amico David Kammerer, per aiutare un altro amico, Lucien Carr, the original Beat, il primo e anche l'ultimo hipster, se la cavano perché la vittima è un omosessuale, quindi un «non uomo» per gli standard dell'epoca.

Anche Bill è omosessuale. Prova una marea di droghe, finisce nei bassifondi, si taglia la falange del mignolo e lo offre al proprio analista, si presenta come cavia per la sperimentazione di qualunque acido, manda letteralmente affanculo Timothy Leary perché impasticca chiunque, anche chi è impreparato ai viaggi, spara in testa alla moglie Joan giocando a Guglielmo Tell a Città del Messico, finisce dentro, esce subito su cauzione, per sicurezza leva le tende e vive tra Tangeri, Parigi e Londra, comunque continua a drogarsi, Keith Richards al confronto è una educanda. Scrive uno, due, tre, cinque, dieci libri che dovrebbero figurare nella libreria di chiunque, a Parigi si inventa (con un determinante aiuto dell'amico Brion Gysin) il cut up, ovvero prendi una pagina scritta da te o anche da altri, ritagli parole e frasi, le metti in un sacchetto, lo agiti e rovesci, rimonti a tuo piacimento, tutti lo imitano senza capirci niente, invece lui scrive racconti sconvolgenti con quella o altre tecniche, uno per tutti Sterminatore!, le più terrificanti otto pagine sull'Olocausto, mai nominato espressamente, roba da psicopatici, poi scrive romanzi in cui perdersi per trovare le proprie tare psicologiche e psichiatriche, non facciamo l'elenco, basta Pasto nudo, romanzi che ispirano i Duran Duran (The Wild Boys, ovvero Ragazzi selvaggi), romanzi quasi realistici (Junky), inni ai gatti.

Rilascia interviste memorabili in cui finisce regolarmente per intervistare l'intervistatore, manda lettere sorprendenti in cui è facile misurare la distanza dagli altri beat, incide un disco con Kurt Cobain, diventa un adepto di Scientology, si appassiona alle armi, ah anche l'omicidio della moglie alla fine viene perdonato, quando però William vuole giocare a Guglielmo Tell improvvisamente tutti hanno qualcosa da fare e tornano a casa, rockstar penose cercano di legittimarsi frequentandolo, lui prende volentieri tutti quanti in giro, le rockstar manco se ne accorgono o fingono di non accorgersene, scrive una sceneggiatura, la pubblica, fa schifo ma ha un bel titolo, Blade Runner, chiedere a Ridley Scott se gli è piaciuto, insomma Bill ha visto cose che noi umani non abbiamo visto neppure quando stavamo su Orione a guardare i bastimenti in fiamme nello spazio.

Alla fine, comprensibilmente, muore anche lui, poveretto, nel 1997. Non ha frequentato scuole di scrittura, non ha vinto il Premio Strega, non ha fatto endorsement politici, non apparteneva a gruppi, neanche a quello Beat, non era niente a parte se stesso, cosa che poteva anche essere faticosa per lui e sgradevolissima per gli altri. Risultato, lascia un'opera di formidabile ingegno, in cui non racconta nulla che si possa capire dall'inizio alla fine ma che spiega tutto quello che ci circonda: dalle biotecnologie alle guerre passando per la globalizzazione, soprattutto spiega perché normale è solo chi uccide la sua anormalità che poi è sempre la sua più grande ricchezza. Chi si macchia di questo peccato, ed entra o resta nella valle dei tiepidi, senza mai uscirne, non vale nulla, inutile girarci intorno. Ecco come William Burroughs, nel 1969, in cinque righe, rendeva inutili, datati e ridicoli i successivi cinquant'anni di discussione dei critici letterari: «Il romanzo tradizionale è spacciato, marginale. In futuro la gente non leggerà o leggerà solo forme di scrittura estremamente brevi. Lo scrittore dovrà sviluppare tecniche sempre più precise in grado di competere con la televisione e la fotografia» (The Job). Ah, con quest'altra frase invece liquidava la sociologia politica dal dopoguerra a oggi: «Noi abbiamo un nuovo modo di governare adesso. Non il governo di un solo uomo, o il governo degli aristocratici o dei plutocrati, ma di piccoli gruppi innalzati a posizioni di potere assoluto da pressioni a casaccio, e soggetti a fattori politici ed economici che lasciano poco spazio alla decisione. Sono i rappresentanti di forze astratte che hanno raggiunto il potere attraverso la resa del proprio io. Il dittatore dalla volontà di ferro è una cosa del passato. Non ci saranno più Stalin, non più Hitler.

I governanti di questo che è il più insicuro dei mondi possibili sono governanti per puro caso, inetti, timorosi piloti ai comandi di una vasta macchina che non possono capire, e chiamano degli esperti che gli dicano quali bottoni premere» (Interzona).

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