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Cairo: "Prima o poi entro in politica"

Lo chiamavano Berluschino: "Calcio e tv li amavo prima di conoscerlo. Il Torino? Lo salvo e poi lo porto in Uefa". Sull'amore: "Basta matrimoni, ma vorrei avere figli". E sulle donne: "Io cascamorto? Macché, mi dedico di più ai calciatori"

Cairo: "Prima o poi entro in politica"

È noto che le massaie prussiane, vedendo Kant rientrare dalla passeggiata, si regolavano sulla sua puntualità. A Urbano Cairo invece sfugge addirittura il concetto. È la differenza tra un filosofo e un imprenditore.

Fissa l'appuntamento alle 11 a Milano nella sede della Cairo Communication. Profittando però di un comune amico che mi intrattiene cortesemente, si presenta fresco fresco alle 12,30. Un ritardo del genere può avere due origini. O del prossimo non gli interessa un piffero. Ma non è il suo caso, perché Cairo è un gentilissimo signore che mi trascina entusiasta nel suo studio, con tavolo ovale, poltrone verdi, un allegro dipinto semi astratto e, in un batter d'occhio, fa portare per sé e l'ospite caffè, bicchieri, acqua, ecc. Oppure, è un tipo perennemente indaffarato ad architettare strategie, fare affari, ecc. al punto che gli orari sono un impiccio.

E qui, ci siamo. Il cinquantaduenne Urbano, piemontese di nascita, milanese di adozione, sveglio per natura, è il secondo editore italiano di periodici (Dipiù, Diva e Donna, Prima Comunicazione, ecc.), abile raccoglitore di pubblicità e discusso patron del Torino, veneranda squadra in lotta per restare in A.

Da questo dolente capitolo - incurante delle attenzioni che mi dimostra, mi riempia bicchieri e porga zollette - comincio brutalmente.

«Ha di nuovo cambiato allenatore prendendo Camolese per tre mesi. Pronto a silurarlo?».

«Scaramanzia. Prima facevo contratti biennali, ma i trainer duravano meno. Ora l'ho fatto breve sperando in un rapporto lungo». Si toglie l'elegante giacca grigia e si mette in posa da combattimento sulla sedia girevole.

«Pensa di stimolarlo senza garanzie?».

«Nel calcio più del contratto conta il rapporto personale. Spero che tra me e Camolese si sprigioni questa chimica».

«Camolese era nello staff di Cimminelli che gettò il Torino nel baratro da cui lei lo ha tratto. Un recupero poco attraente», osservo.

«Camolese, però, fu un raggio di luce. Prese il Torino quart'ultimo in B e vinse il campionato. L'anno dopo, in A, il Torino fu undicesimo. Tra i migliori risultati recenti», dice dimenandosi sulla girevole con un'irruenza che si propaga ai ciuffi dei suoi folti capelli da viveur.

«Lei ha salvato il Torino e riportato in A. Poi, ha cominciato a fare il Sor Tentenna: sette cambi di allenatore in quattro anni».

«Non ho tentennato: se ho cambiato, ho preso decisioni. Magari sbagliate. Però, siamo in A da tre anni. Non accadeva da 12 anni», dice secco e impermalito.

«Si accontenta di poco».

«Non ho ancora potuto realizzare ciò che vorrei fare del Toro. Ci vuole tempo per fare esperienza e trovare le persone giuste. Quando nel '99 ho salvato le edizioni di Giorgio Mondadori, prima di fare di più ci ho messo cinque anni. Sandro Mayer (direttore di Dipiù) l'ho trovato dopo un lustro».

«Cosa vorrebbe fare del Toro?».

«Ora, l'imperativo è salvarsi. Dopo, voglio che possa giocarsela nelle prime sette, otto posizioni. Coppa Uefa, poi... Vedremo».

«Capisce qualcosa di calcio?», chiedo e respingo un secondo caffè che avanza corruttore.

«Ho giocato tanto a calcio da ragazzino. È la mia passione. Senza essere un tecnico, il giocatore bravo lo vedo».

«Le mancano i soldi per prendere qualcuno di davvero grosso?».

«Ho preso giocatori importanti. Nella maniera più assoluta, non è questione di soldi. Anche se non ho il patrimonio di Berlusconi o Moratti. Va poi considerato che con una squadra che fattura un quinto delle grandi - 40 milioni contro 220 - devo affrontare le stesse cose».

«Il suo modello di squadra?».

«Quella che alleva promesse. Investo nel vivaio e nella ricerca di talenti in altri Paesi. Per questo ho il direttore sportivo, Foschi, il suo collaboratore Pedersoli e una rete di osservatori sguinzagliati».

«Merita ancora il titolo papale di Urbano I che le dettero i tifosi?».

«Papale era eccessivo, mi bastava monsignore. Se hanno voluto esagerare è perché ho preso il Toro dal rotto della cuffia».

«Ora dicono che il problema è Cairo».

«Non credo proprio. Solo per partire ho iniettato 10 milioni nel capitale e 14 di fideiussione alla Lega calcio. Inoltre, do al Toro un mare di tempo. Ma va bene così. La squadra c'è e Camolese è motivato».

«Come avvoltoi sul Toro morente si affacciano di continuo aspiranti compratori. Vuole vendere?».

«Neanche una volta ho detto di volere vendere. Né ho visto compratori, salvo gli avvocati di un tale Ciuccariello che hanno parlato d'altro. Non voglio vendere, ma portare il Torino a buoni risultati».

«Si parla di una cordata Giraudo-Briatore-Moggi», insisto.

«Non scendo a commenti», dice duro.

«Il calcio è un boomerang. Chi sfigura, appanna la propria figura complessiva di imprenditore».

«Sul calcio sono inciampati ottimi imprenditori rimasti poi tali. È un mondo a sé. Non fa testo. Io lo amo e lei non insista».

«In realtà, come editore lei non ne sbaglia una», lo rabbonisco.

«Finora è stato così. Nel '95, sono partito da zero. Né uffici, né una segretaria. Oggi, sono in Borsa e fatturo 260 milioni. Nel difficile 2008 ho avuto un utile netto di 13 milioni, mentre gli altri arretravano», dice con fremente orgoglio che si traduce nella bevuta a garganella di due bicchieri di minerale.

È la scuola del Cav di cui, ventiquattrenne bocconiano, lei è stato segretario per anni?
«Fondamentale. Ma nessuna scuola ti può dare quello che non hai. Il Cav puoi vederlo dieci anni di fila, ma se poi non sei tu a prenderti il rischio, avere le idee e la voglia, non vai da nessuna parte».

La chiamano Berlusconino: magnatino della stampa, squadrina di calcio, doppiopetto. Lo imita?
«Doppiopetto, mai. Non lo imito. Abbiamo le stesse passioni. Ma calcio, editoria, tv li amavo prima di conoscerlo. Poi, in 14 anni a gomito, l'ho osservato fare cose eccellenti. Da 13 anni però lo avrò visto quattro volte».

Che è rimasto tra voi?
«L'affetto. Quando lo cerco mi risponde subito. È un bel rapporto sottinteso, non nutrito da frequentazioni».

È stato a lungo con Marcello Dell'Utri in Publitalia. Poi avete rotto.
(Non sprizza di entusiasmo per l'argomento) «Abbiamo preso strade diverse».

Le rimproverò di avere patteggiato con Mani pulite un'accusa di falso in bilancio, anziché negare come gli altri di Publitalia.
«Non avevo fatto nulla, ma volevo togliermi da una situazione che non mi piaceva e cominciare un'attività mia».

Ebbe 19 mesi con la condizionale.
«Dopo un incidente di esecuzione la pena fu ridotta a cinque mesi. Comunque, mai falsificato niente».

Dell'Utri è mafioso come dicono i giudici di Palermo?
«L'ho frequentato per anni. Neanche venuto in mente».

Del Cav ha detto: «Ha lasciato più segni negli affari che in politica».
«Da imprenditore è stato molto innovativo. Ha costruito città e la tv privata. Come politico non è stato fortunato, nonostante consideri importante la fortuna. Nel 2001, l'11 settembre. Ora, la recessione».

È una bocciatura?
«Ha cambiato il modo di fare politica, ma non ha ancora inciso sul benessere degli italiani».

Come lo giudica in questa fase?
«Piuttosto bene. L'idea sulla casa è l'uovo di Colombo, ma è molto interessante. Altri Paesi la stanno studiando. Un'ottima mossa imprenditoriale che lo qualifica come Presidente imprenditore».

Quale politico le piace di più?
«Al momento, Berlusconi».

Pensa ancora a un quotidiano popolare?
«Non è il momento dei voli pindarici, meglio concentrarsi su ciò che si ha. L'idea però non è tramontata. Tutta la mia attività imprenditoriale ha anticipato la crisi. Giornali senza gadget, ricchi di contenuti e a metà prezzo. Vanno come il pane. Vendendo molto, dipendo meno dalla pubblicità».

Per il popolare aveva individuato in Pietro Calabrese il direttore. Ora, sfumata la presidenza Rai, è libero.
«È in gambissima. Ma il mio direttore ideale deve avere al massimo 35 anni per sentire come il potenziale lettore».

I quotidiani hanno futuro?
«Vivranno, ma ridimensionati. Venderanno meno, avranno meno pubblicità. E dovranno rivedere le strutture».

Giornale preferito?
«Sono abituato al Corriere della Sera. Me l'ha attaccato mio nonno. Oggi leggo pure gli sportivi».

Tre matrimoni, quattro figli. Basta o mai dire mai?
«Sui matrimoni vorrei che bastasse. Magari, non sui figli. I bambini sono stupendi».

È credente?
«Sono religioso e vorrei esserlo di più».

È un cascamorto, come il Cav?
«Ma dai. Oggi mi dedico più ai calciatori».

Che le manca di realizzare?
«Vado a fiammate. Tra 2003 e 2005 ho fatto tre settimanali, due mensili e ho preso il Toro. Ora, digerisco. Domani chissà: il quotidiano, altri settimanali, qualcosa di meglio per il Toro».

Tentato dalla politica?
«Ora, no. Ma mi è sempre piaciuta. Poi, se devo imitare il Cav, se sono rose fioriranno».

La sua idea politica di fondo?
«Un innalzamento della qualità della vita per tutti. Dà pace e serenità».

Qual è la domanda che non le ho fatto?
«Dopo un tale fuoco di fila, anche questo pretende da me? Basta.

Sono esausto».

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