Controcultura

"Il Campiello? Dipende dall'annata, come il vino Io bevo romanzi storici"

L'imprenditore presidente del premio parla delle proprie radici. Fra idee, tragedie e libri

"Il Campiello? Dipende dall'annata, come il vino Io bevo romanzi storici"

Alessandro Gnocchi

nostro inviato a Verona

Piero Luxardo si accomoda nella sala stampa della tenuta Serego Alighieri in Valpolicella, vicino a Verona. Ha vinto il XXXVIII premio Masi per la Civiltà veneta, assegnato dall'omonima fondazione, assieme a Roberto Citran e Nando Pagnoncelli. «Sala stampa» si fa per dire, è una magnifica sala con vetrate sul cortile e la campagna. Qui, dice la leggenda, ha abitato Dante Alighieri, e ha scritto una parte della terza cantica. Ce lo racconta Sandro Boscaini, vicepresidente della Fondazione presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti. Luxardo è una persona particolare: imprenditore, professore di letteratura italiana all'università di Padova e presidente del comitato di gestione del Premio Campiello. Per questo ha vinto: «Rara figura di imprenditore e intellettuale», dice la motivazione. La sua famiglia ha una storia lunghissima. Esemplare. Terribile e meravigliosa al contempo. Girolamo Luxardo, ligure di Santa Margherita, è il fondatore dell'impresa. Aveva cominciato con attrezzature per la pesca. Ma decise di cambiare strada, rischiando tutto.

Cosa accadde, professor Luxardo?

«Nel 1821, a Zara, dove si era trasferito come rappresentante consolare del Regno di Sardegna, Girolamo notò che la moglie Maria Canevari realizzava in casa un ottimo liquore casalingo. Era il maraschino. Girolamo ci pensò su ed ebbe due idee vincenti: introdurre la distillazione a vapore e ottenerne il privilegio imperiale per otto anni. Zara all'epoca era parte dell'impero austro-ungarico».

Come andò?

«Con la distillazione a vapore, il liquore era molto più buono. Presto la Luxardo divenne la prima distilleria dell'Impero. Aveva 200 dipendenti e un grosso stabilimento. Successivamente, sotto il fascismo, il porto franco di Zara era un approdo conveniente. L'impresa mise a segno qualche colpo fortunato anche dal punto di vista finanziario».

Poi la tragedia.

«I bombardamenti alleati rasero al suolo gli impianti. Il peggio però doveva ancora arrivare, assieme ai partigiani titini. Nicolò Luxardo e la moglie Bianca furono gettati in mare. Erano già stati processati sommariamente e assolti. Ma a qualcuno non andava bene. Di un altro Luxardo, Pietro, si persero le tracce. La famiglia lo cercò a lungo, senza fortuna. Una parte della famiglia riuscì a fuggire, i beni che si lasciarono dietro furono confiscati».

Come è rinata la Luxardo?

«Giorgio Luxardo, all'armistizio, si trovava a Bologna in servizio militare. Fu la sua salvezza. Era l'unico superstite dei fratelli di quarta generazione. Insieme a Nicolò III, mio padre, che all'epoca aveva 17-19 anni, ricominciò a produrre i liquori a Torreglia. Fece un accordo, ancora vigente, con i piccoli produttori dei colli Euganei. Introdusse gratuitamente il marasco. E comprò tutto il raccolto».

La storia della Luxardo si intreccia alla storia della letteratura... Come mai?

«Mio nonno Pietro era un patriota. Quando Gabriele d'Annunzio entrò a Fiume, il 12 settembre 1919, si aggregò ai legionari. D'Annunzio spesso cenava all'Ornitorinco e concludeva il pasto col Cherry Brandy Luxardo. Comisso ne ha scritto vividamente nel Porto dell'amore e altrove. Naturalmente c'era anche Pietro Luxardo. Una sera arrivarono i giornali inglesi, che definivano d'Annunzio un vampiro. D'Annunzio guardò il liquore rosso e disse: Questo è l'unico sangue morlacco che bevo. E il Cherry diventò il Sangue morlacco».

Il Vate si affezionò parecchio...

«Per la vendemmia del 1919 fece disegnare ad Adolfo De Carolis un'etichetta particolare: si vedono braccia di arditi col pugnale in mano. Sotto si legge il motto dantesco fatto proprio da Gabriele d'Annunzio: Cosa fatta capo ha».

Lei ha scelto la strada degli studi letterari. Perché?

«Era la mia vocazione. Ho avuto la fortuna di poter scegliere di cosa occuparmi. Da quando sono in pensione però ho ripreso a seguire anche l'impresa».

Nella sua attività di professore universitario si è concentrato su autori che non vanno per la maggiore. Perché?

«Per curiosità e anche per cercare di percorrere strade meno note. Nel Novecento sono emersi due filoni in particolare: lo sperimentalismo e l'impegno civile. Io ero interessato alla letteratura d'impegno, ma etico. Mi interessano gli autori che concepiscono la letteratura come impegno morale».

Ad esempio?

«Ci sono tanti grandi dimenticati. Pensi ad Antonio Delfini, ai suoi racconti, ai Quaderni, alle poesie. Altri, ancor più sul versante sperimentale, come Marcello Gallian, poco studiato e poco ripubblicato per motivi politici: era fascista. Altri ancora hanno scritto poco e sono stati schiacciati dalla fama di altri, penso ad Arturo Loria».

La vecchia storia dell'egemonia culturale ha qualche peso?

«Beh, penso proprio di sì. Oggi non credo ma in passato... Fino al grande convegno del 1963, Gabriele d'Annunzio era ritenuto un impresentabile. Si studiava La pioggia nel pineto, d'accordo. Ma era etichettato come fascista, e questo non giovava. Altri autori, magari meno validi, hanno goduto di fortuna critica per le loro idee politiche giuste».

Gli editori non hanno alcuna colpa nel perpetuare il conformismo?

«Gli editori sono imprenditori, si devono dedicare necessariamente a libri che possono incontrare il gusto di un pubblico ampio. Ma questo non significa che manchino libri di qualità».

Lei ha gli occhi ben puntati sull'attualità letteraria, visto il ruolo che ricopre nel Campiello. Cosa vede di interessante nelle librerie?

«Per quanto riguarda il Campiello, io non faccio parte della giuria, non scelgo i libri. Mi pare ci siano annate buone e annate meno buone, esattamente come accade col vino».

Parliamo di quelle buone...

«Il romanzo storico gode di buona salute e non mi riferisco soltanto ai bestseller da grande distribuzione. Ad esempio, apprezzo il romanzo di Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo. Anche M di Antonio Scurati mi sembra un esperimento ben riuscito, con uno stile volutamente poco levigato ma coinvolgente. C'è un filone in generale abusato come quello dell'intimismo famigliare in cui ogni tanto salta fuori qualche romanzo davvero pregevole, ad esempio Lo stradone di Francesco Pecoraro. Il panorama è ricco. Il recente vincitore del Campiello, Andrea Tarabbia, ha scritto un romanzo storico con una forte vena sperimentale. Laura Pariani è un'autrice da seguire con attenzione, sempre valida».

E i gialli?

«Per carità, di noir, thriller e fantasy non ne posso più».

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