Cronache

"La casa vola, cammina e ruota su se stessa Ecco come ho costretto il sole a seguirmi"

Voleva vedere il Tirreno. Così ha montato una villetta di 110 metri quadrati sull’incredibile marchingegno. Senza progetto e adoperando materiali di scarto. Neanche la facoltà d’ingegneria dell’Università di Pisa è riuscita a capire come ha fatto

"La casa vola, cammina e ruota su se stessa 
Ecco come ho costretto il sole a seguirmi"

Sono 110 metri quadrati disposti su due piani, con due ampi terrazzi. Davanti, il panorama è da incanto: Marina di Carrara e il Tirreno. «Ho continuato a costruire fino a quando non ho scorto il mare. A quel punto mi sono fermato. Non fossero bastati 22 metri di altezza, sarei andato ancora più su». Anche sul retro la vista è stupenda: il borgo medievale di Castelnuovo Magra con le Alpi Apuane a far da sfondo. Solo sul lato destro lo sguardo stringe il cuore: il cimitero comunale dell’Angelo. Ma il proprietario della dimora non ne è affatto turbato: «Nel 1978 ho deciso di non lavorare più per gli altri. Solo per me stesso. Ero stufo di prendere ordini e avevo calcolato d’aver messo da parte abbastanza per campare con 5 milioni di lire al mese fino a 80 anni. Il 25 marzo ne ho compiuti 79, quindi... Niente paura, comunque. Ho fatto le prove con una bara vera: ci passa. Sia dall’ingresso che dalle rampe di scale».
Nonostante l’aspetto florido, Annunzio Lagomarsini dice d’aver avuto «tutti i mali del mondo: tumore, infarto, quattro bypass coronarici, endoarteriectomia della carotide destra, occlusione inoperabile della carotide sinistra, protesi al ginocchio sinistro, cataratta, sordità». Questo già basterebbe a rendere unica al mondo la casa che ho di fronte, costruita fra un ricovero ospedaliero e l’altro: in circa 45 minuti, ruota su stessa di 360 gradi. Intendiamoci, un edificio girevole c’è anche a Marcellise (Verona), la Villa Girasole progettata dall’ingegnere Angelo Invernizzi negli anni Trenta. Ma l’abitazione di Lagomarsini, concepita con criteri antisismici per rimanere sempre sollevata di 4 metri dalla crosta terrestre, non si limita a inseguire il sole, spinta da un motore a scoppio da 20 cavalli. Fa molto di più. In meno di 10 minuti si eleva da terra di altri 5 metri, che sommati ai suoi 13 portano l’altezza della veranda superiore a oltre una ventina di metri, circa la metà della Torre di Pisa. S’inclina di 45 gradi, cinque in più dell’adrenalinico Blue Tornado di Gardaland. Si muove avanti e indietro di 12 metri su un binario. E siccome il suo ideatore dispone di altri tratti di rotaia, alcuni dei quali curvi, in teoria si potrebbe farla uscire dal prato verde sul quale è provvisoriamente parcheggiata e, a tappe di 12 metri, portarla da un’altra parte. Il quadro comandi? Dieci pulsanti per farla salire, due per farla girare, due per farla camminare. Fine.
Durante il saliscendi o la rotazione, gli abitanti non s’accorgono di nulla. A decollo ultimato, sono entrato per primo e ho trovato semiaperto solo un cassetto della cucina, ignoro se per un sussulto oscillatorio o per una banale dimenticanza della signora Emilia, sposata da 54 anni con l’Archimede della Lunigiana. Non una bottiglia rovesciata. Stoviglie in perfetto ordine nella credenza. I 43 gradini per arrivare dal suolo all’ingresso sono disposti lungo scale telescopiche che in parte si richiudono all’atterraggio: «Come ponti levatoi. A prova di ladri». La villetta è ben arredata, ha i muri veri, è dotata di acqua corrente, gas, elettrodomestici, videocitofono, telefono e ogni altra comodità, a cominciare da bagno con doccia, lavabo, wc e bidet.
Ma la casa va considerata unica al mondo per un altro motivo: Lagomarsini se l’è costruita interamente da solo, inclusi i listelli di legno dell’elegante parquet e il letto in ferro battuto con i pomoli d’ottone. Sette anni di accanito lavoro, con materiale di scarto recuperato dai rottamai e senza uno straccio di progetto. «Ho due figli laureati, Patrizia in lingue e Armando in ingegneria meccanica. Il maschio accetta di far dormire in questa casa i miei nipotini ma lui c’è entrato dopo un anno e soltanto per una volta, non riesce a capire come faccia a star su, gli pare impossibile che gli unici calcoli siano consistiti nelle prove di resistenza che eseguivo sui singoli pezzi». Per meglio comprendere l’eccezionalità di quest’ultimo record, basta osservare le mani del pensionato. Sulle prime credevo che le dita, più storte e nodose dei rami di un carpino, fossero state deformate dall’artrite reumatoide. «No, no, le ho così dal 1968. Mi sono dimenticato di dirle che, fra le tante disgrazie, m’è anche scoppiata in faccia una caldaia. Per le gravi ustioni sono rimasto otto giorni tra la vita e la morte».
Lavorare con quelle mani rattrappite dev’essere stata una tortura supplementare. Del resto nemmeno il fuoco poteva fermare il fervore creativo di Lagomarsini. «Lo vede il longherone all’estremità del tetto? Mentre lo stavo saldando, a cavalcioni della ringhiera, mi è schizzata una scheggia incandescente dentro un occhio. Ho aspettato che finisse di bruciare per non lasciar cadere il profilato nel vuoto. Mi ha fritto mezza pupilla, provocandomi una riduzione della vista».
Un monumento alla volontà, ecco che cos’è la «casa volante», come viene chiamata dalla gente del posto. Ma anche all’ingegno umano. Perché il pensionato di Castelnuovo Magra non s’è limitato a costruire solo quella. Ha anche creato, molto prima che venissero inventate le pale eoliche, un complicato sistema di rotori che catturano l’energia del vento e la immagazzinano sotto forma di aria compressa. E poi un macchinario che sforna caldarroste. E anche, essendo d’animo sensibile, una giostra formata da 160 storni meccanici che svolazzano, planano, becchettano nel prato, «uno stormo di uccelli finti che mi dava allegria, adesso è da un po’ che non lo metto in funzione perché qui in giardino vengono a trovarmi alle 13 in punto centinaia di tortore dal collare, mi costano 20 euro a settimana di granaglie». S’è pure dedicato alla costruzione di un suo sosia in acciaio inossidabile, ritraendosi allo specchio con la stessa tecnica del Caravaggio, «solo che lei non ha idea di quanto sia duro dare forma all’inox»: ne è uscito un robot con una radio nella pancia, che muove gli arti, si toglie deferente il berretto e offre dolciumi alle signore, dando però un’inaspettata prova di virilità quando le incaute ospiti accettano il bonbon. Farebbe la gioia di Mara Venier, Barbara De Rossi e Marina Suma, dimenticabili protagoniste di Caramelle da uno sconosciuto.
Che studi ha avuto per riuscire a realizzare tutto questo?
«Terza media, seguita da tre anni di corso per diventare motorista navale. Non ho mai letto un libro in vita mia. Però se in una pagina vedo dieci numeri, o dieci date, li memorizzo e non li dimentico più».
Che mestiere faceva?
«A 17 anni mi imbarcai sul mercantile Micaela della Soarma di Genova, che trasportava legname e zucchero sulle rotte da e per Colombia, Cuba, Messico, Stati Uniti, Canada. Il 15 agosto 1955 fummo investiti dall’uragano Diane. Quattro morti a bordo e sei mesi alle Bermuda per riparare la nave. Al ritorno scelsi il Clarus, una chiatta petrolifera che navigava in acque più tranquille tra il Canale della Manica e la Svezia e risaliva anche il Tamigi e la Senna. Poi il servizio di leva sul sommergibile Vortice. Finita la naia, andai a lavorare con mio padre muratore nei cantieri. Guidavo il camion. Sennonché uno dei miei fratelli, emigrato in Uruguay, rimpatriò. Aveva bisogno di lavorare, per cui cedetti a lui l’autocarro. Ero stato primo ufficiale su una nave di 18.000 tonnellate di stazza e mi ritrovai dalla sera alla mattina a fare il manovale».
Poi però s’è riscattato.
«Sì, sono diventato un piccolo imprenditore edile, con una quindicina di dipendenti. Ho avuto 23 auto di grossa cilindrata, fra cui una Ferrari 320 e una Bmw 733 che era già stata opzionata dal petroliere Albino Buticchi, l’ex presidente del Milan. Gliela portai via da sotto il naso mettendo sul tavolo del concessionario 75 milioni in contanti, che al valore della lira sul finire degli anni Settanta sarebbero circa 200.000 euro di oggi».
Mi pareva d’aver capito che era un tipo risparmioso.
«Ha capito bene. La mia casa semovente l’ho fatta con putrelle, pistoni, centraline, compressori e almeno 3.000 bulloni recuperati presso cantieri navali, industrie meccaniche, robivecchi. Altrimenti mi sarebbe costata più di un miliardo. Con quello che si trova nelle discariche si potrebbero costruire cattedrali, ma la gente non se ne rende conto. Le spese più grosse sono state per 12 valvole idrauliche, 300.000 lire l’una, e per 23 travi di ferro che servivano su misura. Anche se in genere io vado a occhio. Chiudo le palpebre e vedo l’oggetto già finito, non ho bisogno di metterlo sulla carta. Poi lavoro di tornio, fresa, trapano, saldatore e taglierina per adattarlo al disegno che ho stampato in testa».
Perché s’è impegolato in quest’avventura?
«Mi sono ricordato di mio padre, che da vecchio, ormai quasi incapace di camminare, d’estate si trascinava la sedia tutto il giorno intorno alla casa per cercare l’ombra. Ho pensato: visto che farò la stessa fine, meglio che sia la casa a girare mentre io sto fermo. Mi sono ricordato anche dei tanti acquirenti dei miei appartamenti: chi li voleva a mezzogiorno, chi all’ultimo piano, chi d’angolo, e tutti lo pretendevano con la vista panoramica. Per non trovarmi nelle loro condizioni, ho concepito un’abitazione che avesse tutti questi requisiti. Inoltre dovevo un risarcimento a mia moglie».
Per quale motivo?
«Nel corso degli anni ho costruito 12 case per noi. Ma, appena le finivo, si presentava qualcuno a chiedermi se gliele vendevo. A quel punto l’impresario edile prevaleva sul marito. Cedevo sempre. La più bella gliel’avevo tirata su a Fosdinovo, con una spettacolare piscina a sbalzo lunga 18 metri, aggrappata alla montagna. Il colmo della vergogna l’ho toccato sulle colline di Langhirano, dove Emilia una domenica stava mettendo le tende in una villetta per le nostre vacanze appena spacchettata. Passa di lì un tizio: “Scusi, lei sa se ci sono alloggi in vendita da queste parti?”. E io: questo le potrebbe interessare? “Eccome! Ma è libero?”. No, ma glielo libero subito. Ho detto a mia moglie: chiudi la valigia, torniamo a Castelnuovo Magra».
La «casa volante» pensa di replicarla?
«No, mi basta aver vinto la sfida con me stesso. Anche perché ho passato un sacco di notti in bianco a immaginare come avrei potuto sollevare 115 tonnellate di roba. Non era mica facile. Come vede, l’edificio è sospeso su due enormi forbici aperte: a mano a mano che si chiudono, va su. All’inizio lo sforzo per smuoverlo è tremendo. Sono servite due zavorre laterali da 130 quintali ciascuna per dargli la spinta propulsiva».
Chi le ha rilasciato la licenza edilizia?
«Nessuno. Un giorno si presentarono i vigili urbani: “Che cosa sta facendo?”. Quello che mi pare, risposi. Il Comune mi denunciò per abusivismo. Processo in pretura a Sarzana. Rifiutai l’avvocato: riesco a difendermi da solo. Il giudice non sapeva che pesci pigliare: “Ma insomma, dovete essere voi a decidere se sussistono i requisiti per un’ordinanza di demolizione”, disse al geometra dell’ufficio tecnico municipale. Alla fine fui convocato da Mario Giacomelli, per 25 anni sindaco comunista di Castelnuovo Magra: “Per noi la casa non esiste”, e chiuse il fascicolo. Da allora è ancora chiuso. In compenso sono venuti a vederla architetti dal Giappone, dalla Francia, dalla Svizzera. Manco avessi progettato un monumento nazionale».
Ma è registrata al catasto, almeno?
«E chi lo accatasta un immobile che si muove? C’è solo una cosa alla quale il Comune potrebbe appigliarsi: l’ingombro volumetrico e il conseguente impatto visivo. Ma anche qui come si fa a stabilire che una casa deturpa il paesaggio se in pochi minuti si può abbassare da un’altezza di quattro piani al piano rialzato?».
Paga, o pagava, l’Ici?
«L’Ici oppure il bollo come le roulotte? Non sanno che cos’è, non sanno come chiamarla. Quindi, nel dubbio, è esentasse».
I vigili del fuoco non hanno trovato nulla da ridire sulle norme di sicurezza?
«È possibile mettere a norma un manufatto anormale? Sono un privato cittadino, questa è casa mia, qui non c’è niente a norma, neanche il proprietario. Comunque sicura è sicura, perché mia moglie tiene le pentole sul fuoco e continua a cucinare persino mentre la casa si sta alzando o abbassando».
E in base a quale criterio decide se alzarla o abbassarla?
«Adesso che sono vecchio e ho la protesi al ginocchio, la tengo giù. Salire tutti quei gradini è faticoso, tanto che preferisco abitare in questa casetta attigua a pianterreno che mi sono ricavato dall’officina. Ma è bello dormire lassù dondolati dal vento. D’estate è sempre arieggiata».
D’inverno ci farà freddo.
«L’unica cosa che non ho potuto mettere è il termosifone. Devo riscaldarla con i radiatori elettrici. Ma è ben coibentata. I muri sono spessi 17 centimetri, formati da due file di forati, una esterna e una interna, con un’intercapedine di poliuretano espanso».
Gli scarichi dove finiscono?
«Tubazioni flessibili, in gomma. Ho sfruttato il principio di Venturi. Le dice qualcosa?».
No.
«Un fluido acquista velocità se passa attraverso una conduttura la cui sezione a un certo punto si restringa. Pensi al tubo per innaffiare il giardino: se lei lo strozza, il getto d’acqua diventa più forte, arriva più lontano».
Ma in caso di nubifragi violenti resisterà?
«Il baricentro ce l’ha. Sia pure calcolato a spanne».
Che cos’è per lei la casa?
«Un riparo. Quando ci stai dentro troppo, significa che sei già pronto per la casa di riposo».
Parenti e amici che hanno detto della sua costruzione?
«Pensano che sia matto perché non l’ho brevettata e commercializzata».
Non hanno tutti i torti.
«Eh, lo so. Ma per il brevetto servono i disegni. Ci avevo anche provato. Un docente di ingegneria meccanica dell’Università di Pisa era venuto qui con due laureandi per cercare di tradurre in un progetto quello che era uscito dalla mia testa. Dopo un paio di giorni gli studenti hanno gettato la spugna: “Professore, ma se rimaniamo qua a fare tutti i calcoli, alla laurea quando ci arriviamo?”. Più rivisti».
(543. Continua)
stefano.

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