Politica

Il caso Glucksmann

André Glucksmann ha scelto Nicolas Sarkozy e ha spiegato le ragioni con la chiarezza del suo linguaggio e del suo pensiero. Chi lo conosce, chi ha letto i suoi libri e ascoltato i suoi discorsi non può stupirsene. Sa che si tratta di qualcosa di più del sostegno elettorale dato dal filosofo al progetto più vicino alle proprie convinzioni. Sa piuttosto che c'è una cultura, un pezzo importante della cultura europea, che non può più riconoscersi nella sinistra e si sente politicamente rappresentata da un'innovazione che sta nell'area neo-liberale. Il segnale è nitido. Indica, per il peso e il ruolo del personaggio, che ormai c'è più pensiero nella «nuova destra», quel mondo che dopo il 1989 e dopo l'11 settembre si è via via strutturato e che la gauche, ad ogni latitudine, si sta sempre più svuotando.
Immagino le reazioni dei «sacerdoti dell'ortodossia». I loro argomenti sono prevedibili, concentrati sull'eresia del «passaggio di campo» e sul «neoconservatorismo americano in salsa europea». Non è solo propaganda. Ogni burocrazia mente a se stessa per poter mentire agli altri, come annotò Jung Chang raccontando nei Cigni selvatici la rivoluzione culturale maoista. In questo caso - nel caso di Glucksmann, come del resto è già avvenuto negli Stati Uniti o in Italia - la menzogna è la peggiore di tutte, perché consiste nel non voler neanche leggere le ragioni per le quali una parte della sinistra ha smesso di essere tale.
Nelle righe di Pourquoi je choisis Nicolas Sarkozy si ritrovano le stesse questioni con cui ci siamo misurati noi in questi anni. Una battaglia delle idee che «stranamente» avviene soprattutto nella destra. Il conflitto con il «feticismo conservatore» del primato degli Stati. E soprattutto il capovolgimento di una dicotomia storica in virtù della quale la sinistra era internazionalista e la destra isolazionista. Sono questioni in primo luogo europee. Su una linea di confine che in Francia è segnata dal tardo gollismo di Chirac e della gauche e in Italia da un'ideologia terzaforzista in politica e neutralista quanto a valori, che oggi è compiutamente espressa da chi governa. Qui, per ripetere le parole di Glucksmann, proprio «la sinistra si è trovata in un vuoto più grande di lei». E ha rifiutato di fare i conti con se stessa e con quella ricerca di idee, spesso scomode, che è la cultura.
Di questo passaggio non di campo ma di epoca, con André abbiamo parlato tante volte, condividendo analisi e idee, durante i convegni - i convegni di Liberal - a cui ha così intensamente partecipato. E proprio in questi giorni, per dargli ragione, mi è tornato in mente che Lionel Jospin era primo ministro socialista quando definì Hezbollah un movimento terrorista - sette anni fa, non c'era stato neppure l'11 settembre - mentre Massimo D'Alema, a Beirut, non ha avuto alcun problema lo scorso luglio. Un dettaglio? No. Il simbolo dell'incapacità di vedere come centrale la parola «libertà».
Glucksmann ha compiuto un gesto che suona come la rottura con un conformismo, grazie al quale si può fare tutto tranne che scegliere un progetto politico vicino alle proprie convinzioni, se questo progetto è destra, o centrodestra o non è sinistra. Ha già compiuto gesti analoghi in passato. Oltre trent'anni fa fu tra coloro che, all'uscita di Arcipelago Gulag, demolirono in Europa il mito sovietico. Dopo l'11 settembre ha saputo cogliere la minaccia del «nuovo nichilismo». Ora segnala l'estinzione dell'ultima ideologia della sinistra europea e delle sue pretese di egemonia.

In Francia, come del resto in Italia.

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