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In cima al mondo con la bici (ma con una sola gamba)

Sulle vette del Kashmir non era mai transitato un ciclista così. "Great man", lo chiamavano. Ha superato 12mila metri di dislivelli, arrivando ai piedi del Siachen, il ghiacciaio soprannominato Terzo Polo

In cima al mondo con la bici 
(ma con una sola gamba)

Sul cartello c’è scritto «Khardungla 18.380 ft», feet, piedi. Ma se per arrivarci hai a disposizione un solo piede, devi far conto che diventino 36.760 feet, il doppio, cioè 11.204 metri. Come se all’Everest, che già di suo è il tetto del mondo, ci aggiungessi mezzo monte Bianco.
Non si sa di preciso se il Khardungla, il più alto passo di montagna del pianeta, incuneato fra India, Pakistan e Cina, nel Kashmir, si trovi a 5.602 metri sul livello del mare oppure a 5.359, per stare alle recenti stime di alcuni geografi spagnoli. Quello che appare certo, perché ci sono le testimonianze, i filmati e le foto a comprovarlo, è che Andrea Devicenzi, un perito aziendale di 37 anni, abitante a Martignana di Po (Cremona), è l’unico uomo ad averlo raggiunto in bicicletta con una gamba sola, pedalando su una strada di fango che s’inerpica fino ai piedi del Siachen, ghiacciaio della catena del Karakorum chiamato per la sua estensione il Terzo Polo. Arrivato lassù, sul passo dove sventolano migliaia di bandierine colorate che rappresentano le preghiere buddiste dei temerari in transito, è riuscito a pronunciare soltanto quattro parole: «Eccolo! Ci siamo riusciti». Poi è scoppiato a piangere. Andatevelo a vedere su Internet a questo indirizzo: www.youtube.com/watch?v=fleLCIjVLWc. Lo ammirerete mentre arranca su quell’unico piede fra le nevi perenni, in una pietraia desolata e al tempo stesso ammaliante, e un groppo alla gola prenderà anche voi.
Andrea Devicenzi è privo della gamba sinistra. Quando i medici gliela amputarono insieme con la coscia, fino all’altezza dell’anca, aveva 17 anni. Dopo 20, ha voluto mettersi alla prova e ha scoperto di poter superare se stesso sui 700 chilometri di carrareccia che congiungono la città indiana di Manali a Leh, 3.522 metri d’altitudine, capoluogo della regione himalayana di Ladakh, e poi di qui fino al Khardong La o Khardungla: «“La” in lingua tibetana significa “passo”». Un tragitto impervio anche per i camion, per più del 90 per cento sterrato, sul quale i veicoli possono procedere in un’unica direzione a orari alternati. Un dislivello complessivo di almeno 12.000 metri: «Oltre al Khardungla, ho dovuto valicare altri quattro passi: uno di 3.978 metri, uno di 4.892, uno di 5.059 e uno di 5.325». Dirupi da panico. Tornanti da schiantare anche il più allenato degli arrampicatori. Torrenti gelidi da guadare: «Lo facevo da scalzo. Se mi fossi tenuto la scarpa, poi avrei avuto il piede bagnato fino a sera». Otto giorni in sella alla sua mountain bike per 9 ore al giorno, con le grucce legate alla canna del telaio e gli indumenti di ricambio, la tenda e il sacco a pelo stipati nei due portapacchi sulle ruote posteriori. Fino a diventare una leggenda vivente: «Ogni volta la gente ci chiede se abbiamo visto lungo il percorso un ragazzo in bicicletta con una sola gamba», ha lasciato scritto nel post su Youtube un escursionista scozzese passato sulla Manali-Leh pochi giorni dopo l’italiano. «Quindi, signore, lei ha il nostro massimo rispetto!».
Per capire in che modo Devicenzi sia riuscito nella strabiliante impresa m’è bastato trascorrere mezza giornata nella sua postazione di lavoro all’ingresso della Nuova Cogeme di Casalmaggiore, dove si portano a 1.300 gradi le billette per farne barre e profilati. «Andrea» lo chiamano a gran voce i conducenti dei Tir che arrivano dalla Finlandia, dall’Olanda, dalla Francia, dalla Spagna, dal Portogallo. «Andrea, devo essere a Domodossola fra tre ore» supplica un camionista slavo imbalsamato dal freddo. «Andrea, tutto bene?» viene a dargli un bacio verso le 11 la moglie Jessica, sposata due anni fa, dopo otto di fidanzamento, dalla quale ha avuto Giulia, 6 anni, e Noemi, 9 mesi. Andrea compila le bolle di carico e scarico. Andrea stampa le etichette argentate con peso, misure e numero di colata dei laminati metallici. Andrea riceve il postino e firma le ricevute delle raccomandate. Andrea risponde al telefono. Andrea saltabecca dall’ufficio al piazzale della pesa sorretto solo dalle sue stampelle color turchese fluorescente. Andrea sale le scale dell’amministrazione a tre gradini per volta e dice a me: «Venga, le faccio strada», fino a raggiungere il pulpito di laminazione che sovrasta l’intero stabilimento. Andrea cammina più veloce di chiunque. Andrea sorride sempre, accontenta tutti, non s’arrabbia mai. Andrea non sottrae neppure un minuto al lavoro («siamo appena in 20 qui, fra operai e impiegati, non possiamo permetterci lussi: l’azienda è rimasta chiusa per sei mesi, ha riaperto solo a dicembre») e rinuncia al pasto per raccontare al giornalista, che lo ha atteso fino alla pausa delle 12.30, la sua avventura.
Non è mai stato sul punto di rinunciare?
«No, ma è stata durissima. Mi ero allenato per otto mesi. Avevo anche affrontato il monte Zoncolan, nelle Alpi Carniche, la salita più ostica d’Europa, quella che ha consacrato Ivan Basso nell’ultimo Giro d’Italia. Sul Khardungla sono andato oltre la forza fisica. È stata solo la mente a portarmi in cima, a non farmi desistere».
Nel filmato ringrazia prima di tutto la sua famiglia.
«Mi è mancata tantissimo. Non ero mai stato lontano da mia moglie per più di tre giorni. Jessica aveva partorito da circa due mesi. S’è accollata tutto il peso della famiglia durante la preparazione, cinque allenamenti la settimana, dalle 18 alle 21 oppure dalle 12 alle 14, saltando i pranzi. E poi il viaggio in India è avvenuto in uno stato emotivo terribile: io appena messo in cassa integrazione, lei costretta a lasciare il posto d’insegnante nell’asilo nido per crescere le nostre bimbe, un mutuo di quasi 600 euro da pagare tutti i mesi per la casa».
Nel filmato ringrazia anche Stefano Mattioli.
«È un ciclista di Parma specializzato in prove estreme. Ha 45 anni. Nel 2009 ha attraversato da solo il Sahara tunisino. È stato Stefano ad accompagnarmi sul Khardungla. Un’esperienza fisicamente devastante anche per lui, che pure ha entrambe le gambe. E conclusasi nel dramma il 6 agosto 2010, con l’alluvione che ha provocato centinaia di morti e dispersi, fra cui un turista torinese».
Avrete avuto un team di supporto.
«Solo noi due. Il filmato l’ho girato io: con una mano tenevo il manubrio della bici, con l’altra la telecamera».
Gli indiani che trovava sul tragitto che cosa le dicevano?
«“Great man”, grand’uomo. Subito non s’accorgevano della mia menomazione. Quando la notavano, si chiamavano l’un l’altro e mi fermavano. Era la prima volta che vedevano un amputato percorrere in bici la Manali-Leh».
Come ha perso la gamba?
«Un incidente stradale, la sera del 28 agosto 1990. Avevo compiuto 17 anni da poco più di un mese. Tornavo da Viadana sulla mia Aprilia 125. Insieme con un compagno, anche lui in moto, eravamo stati a vedere da un rottamaio, pensi che tragica beffa, la carcassa di un’auto distrutta il giorno prima da un nostro amico, che per fortuna nello scontro non s’era fatto nulla. All’altezza di Cicognara, sono andato a sbattere con la gamba sinistra contro una vettura che proveniva in senso contrario. Praticamente ho lasciato il ginocchio sul fanale. M’è scoppiato il femore. Appena finito a terra, ho pensato: oddio, la moto! A 17 anni ti senti immortale, credi che certe cose possano capitare soltanto agli altri. Tre secondi dopo, ho capito che io ero da una parte e la gamba da un’altra, appoggiata sull’asfalto e tenuta insieme dai brandelli dei pantaloni».
Ha perso i sensi?
«Mai. Sono rimasto lucido per un’ora e mezzo. Quando sento le donne che parlano dei dolori del parto, io non dico niente, però... Non si può descrivere, non si può capire. Devo la vita a un ragazzo di Gussola, che passava di lì: s’è inginocchiato accanto a me, s’è tolto la cintura dei pantaloni e me l’ha stretta attorno alla coscia, bloccando l’emorragia. Al momento di rialzarsi, aveva i jeans tinti di rosso. All’ospedale di Casalmaggiore in poche ore hanno dovuto trasfondermi 18 sacche di sangue da quattro etti ciascuna. L’ultima immagine che ho negli occhi è quella dell’anestesista che mi addormenta. In sala operatoria ho avuto tre arresti cardiaci. Mi hanno preso per i capelli col defibrillatore».
Quando ha saputo dell’amputazione?
«Me ne sono accorto da solo al risveglio. La sera prima pesavo 82 chili, la mattina dopo ero 57. Sono uscito dall’ospedale a gennaio».
Avrà pensato che la sua vita non sarebbe mai più stata quella di prima.
«No, ho pensato che alla vigilia dell’incidente m’ero iscritto alla Vogalonga di maggio, 54 chilometri sul Po, da Cremona a Casalmaggiore. Ne avevo già disputate una quindicina, dalla laguna di Venezia al Mincio. Ho voluto prepararmi, anche senza la gamba. Sono venuti in barca con me un amico, Marco Solci, e mio cugino Rossano Visioli. Avrebbero dovuto darmi il cambio ai remi, invece mi hanno lasciato vogare da solo per cinque ore e mezzo, limitandosi a tenere il timone. Avevano capito perfettamente la situazione: dovevo dimostrare a me stesso d’essere vivo, d’essere ancora l’Andrea di prima. È un debito di riconoscenza che a Rossano non sono mai riuscito a pagare: due anni dopo fu ucciso dai cecchini somali a Mogadiscio durante la missione Ibis 2, alla quale partecipava come parà della Folgore».
Il ricordo peggiore dell’incidente qual è?
«Non la gamba amputata: l’immenso dolore che ho procurato ai miei genitori nel momento in cui i chirurghi sono usciti dalla sala operatoria per comunicargli che non erano riusciti a salvarmi l’arto. Avevo già cominciato ad aiutare mio padre piastrellista a mettere giù pavimenti, avrei voluto che la mamma non fosse più costretta a lavorare come operaia alla Max Mara, e invece...».
Mi perdoni, lo so che è una domanda crudele, ma che cosa si prova a sapere che una parte di sé muore per sempre mentre il resto del corpo rimane vivo?
«È una sensazione strana, che la mente non riesce a cancellare e che si rinnova prepotente ogni volta che torno in cimitero a trovare il nonno Angelo, morto un paio di mesi prima del mio incidente. È lì, accanto alla sua bara, che è stata sepolta la mia gamba».
Prima di questa disavventura, faceva caso agli handicappati?
«Poco. Li vedevo, provavo un po’ pena e tutto finiva lì. Io ho avuto la fortuna di saper reagire. Non ho mai chiesto un posto di lavoro da disabile, che mi spetterebbe per legge. Non voglio essere un peso per la società. I passanti si stupiscono quando rifiuto un aiuto per salire in sella alla mia bici. Non sanno che nel 2010 ho conquistato due titoli italiani nell’inseguimento e nel chilometro da fermo su pista. E pensare che due anni fa m’ero avvicinato al ciclismo solo per dimagrire».
Pesava così tanto?
«In realtà 88 chili. Ma in questi casi bisogna aggiungere i 13 chili della gamba amputata, per cui la complessione era quella di un quasi obeso di 101 chili».
Con quali parole ha spiegato questo handicap alla sua bambina di 6 anni?
«Le sembrerà impossibile, ma Giulia non mi chiede mai della gamba mancante, bensì di quella artificiale che mi è stata costruita al centro protesi di Budrio e che io metto sì e no una volta la settimana».
Perché non la porta sempre?
«Perché mi fa male. Appoggia sull’inguine. In passato inscatolavo il prodotto finito in una fabbrica di carta da parati, quindi dovevo rimanere sempre in piedi. Era una tortura, ogni tanto mi toccava mettermi in malattia perché la piaga sanguinava. In dieci anni che lavoro qui, da seduto, non credo d’aver fatto più di due settimane di assenza».
La sua invalidità comporta altri disagi?
«Uno solo, al supermercato: con le stampelle posso portare un’unica borsa della spesa. Per il resto le barriere esistono solo nella mente di chi se le crea. Conosco persone che, avendo subìto l’amputazione di un dito, tengono sempre la mano in tasca perché si vergognano. Ma conosco anche campioni come l’alpinista Oliviero Bellinzani, varesotto di Orino, che ha perso la gamba sinistra come me in un incidente di moto eppure ha conquistato il Bianco, il Cervino e altre 600 montagne e ha promesso che quest’anno mi porterà con sé in una scalata. O come Francesco Alberghini, ferrarese di Cento, colpito alla nascita da una paresi spastica che fino ai 13 anni gli ha impedito di camminare: è arrivato ai 50 correndo in bici. “Vorrei far capire a tutti i disabili che ne vale sempre la pena”, mi ha detto Alberghini. “La vita è troppo preziosa per abbandonarsi all’oscurità. La luce vince sempre”».
Nel dibattito sul testamento biologico si sente invece dire: «Che vita è se non sono più in grado di andare in bagno da solo, di camminare, di uscire di casa?».
«È un peccato che certa gente ragioni in questa maniera. Nessuna difficoltà può essere così insormontabile da far dire: basta, fatemi morire. Guardate me: anche senza una gamba sono arrivato dove neanche chi ne ha due riuscirebbe ad arrivare».
E ora a quale altro traguardo vorrebbe arrivare?
«Alla Raam, la Race across America, la gara ciclistica per normodotati più lunga ed estrema al mondo, 4.828 chilometri da Oceanside, in California, ad Annapolis, nel Maryland, un continuo saliscendi che si traduce in un dislivello complessivo di 100.000 metri, 11 volte l’altezza dell’Everest. Vi parteciperò con altri due corridori, Alessio Borgato di Padova, che ha un braccio paralizzato, e Alessandro Colombo di Salorno, che ha una gamba ricostruita. Ci accompagnerà Enrico De Angeli di Milano, che è l’unico non disabile e nel 2004 s’è piazzato quarto alla Raam dopo una pedalata durata 9 giorni, 9 ore e 8 minuti».
L’espressione «un uomo in gamba» che reazione suscita in lei?
«Mi diverte. Penso che mi si adatti. Gli autisti dei Tir credevano che nel Kashmir dietro il sellino avessi qualcuno a sospingermi verso la vetta. Allora a uno di loro ho inviato per posta elettronica il link del video che è su Youtube. Quando la settimana dopo è tornato qua a caricare i laminati, mi ha stretto la mano. Non l’aveva mai fatto prima».
(534. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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