Politica

Cina, gli impiegati dei videogame giocano per chi non ha tempo

Eleonora Barbieri

da Milano

È un affare, un gioco, una mania ed è, anche, l’ultima frontiera dell’«outsourcing» in Cina: giovani pagati dai videogiocatori online di tutto il mondo, per giocare al posto loro. I patiti di «World of Warcraft», ad esempio, sono quattro milioni e mezzo: e poiché nel frattempo, oltre che giocare, devono anche lavorare, molti si affidano ai cinesi per continuare la battaglia, guadagnando livelli e qualche soldo (virtuale) in più.
Come racconta il New York Times, in Cina esistono ormai decine e decine di fabbriche, ex capannoni, internet cafè o semplici scantinati adibiti all’industria dei giochi virtuali. Il vantaggio, per gli impiegati, è che possono ottenere uno stipendio (fino a 250 dollari al mese, per chi lavora dodici ore tutti i giorni) semplicemente giocando tutto il tempo.
Anche se non è uno scherzo, perché i committenti pagano pur di garantirsi una buona performance e, perciò, i datori di lavoro sono assolutamente rigorosi. Ai dipendenti forniscono computer, software e la connessione a internet, quindi ripartiscono il carico a seconda delle richieste. Il giro d’affari è potenzialmente enorme: 100 milioni di persone ogni mese partecipano a un videogame online e, solo grazie agli abbonamenti, le aziende del settore intascano tre miliardi e mezzo di dollari. I cinesi non potevano certo lasciarsi scappare l’occasione di offrire manovalanza a basso costo, anche in questo settore.
I giocatori «delocalizzati» non hanno soltanto il compito di uccidere nemici e scalare livelli: funzionano anche da accumulatori di moneta virtuale, soldi che da utilizzare per comprare armi, equipaggiamento, trucchi e quant’altro, pur di rendere il proprio alter ego più competitivo e potente. Le stesse case produttrici hanno criticato l’abitudine di pagare soldi (veri) per ottenere denaro online, una pratica che va contro lo spirito del gioco che è, appunto, divertimento, e non scambio commerciale. La Sony, però, ha creato una borsa per il suo «EverQuest», la «Station Exchange». Il mercato prolifera, anche su eBay, dove si può acquistare dell’oro di «World of Warcraft» a dieci dollari all’etto, piuttosto che un passaggio al livello «60» per 270 dollari.
La compravendita di gradi è teoricamente proibita, ma la richiesta è tale che gli imprenditori cinesi preferiscono rischiare, nonostante gli occhi puntati del governo di Pechino. Basta ricorrere a qualche accorgimento, neppure troppo macchinoso. Le selezioni per il personale, infatti, avvengono tramite normali annunci pubblicitari. Poi, durante il gioco, gli «impiegati» nascondono la loro identità, per non farsi scoprire. Le aziende ricorrono anche all’aiuto degli hacker per inventare nuove strategie.
Per i videogiocatori incalliti e danarosi l’«outsourcing» della loro partita è un modo per continuare a giocare, ma non solo: è la realizzazione dei loro sogni nel mondo del virtuale, con un mezzo molto reale, i soldi. Mentre per i giovani cinesi è un’opportunità da non perdere: tanto che sono già più di 100mila i ragazzi impiegati come «giocatori full-time» e molti di più quelli che sostituiscono i legittimi giocatori soltanto per un’ora o due.
Secondo alcune stime, per i videogame più popolari l’«outsourcing» sfiora quote del cinquanta per cento: il che significa che quasi la metà dei giocatori online di tutto il mondo è costituita da impiegati cinesi. In totale, ventiquattro milioni di videogiocatori sulla rete - un utente su quattro della Repubblica popolare -, pronti a sfidare il controllo delle autorità.

In nome del mercato, seppur virtuale: un negozio dove acquistare poteri magici, forza, abilità, dove è vietato rimanere indietro.

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