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Il commento Ma adesso ci vuole il pugno di ferro

Non hanno inferto solo una ferita al loro calcio e alla reputazione del loro Paese. Hanno fatto di più, molto di più: hanno messo fuori legge il calcio serbo per molti anni (da 3 a 5 anni la possibile squalifica che dev’essere adottata dall’Uefa), lo hanno umiliato e sputtanato coinvolgendo anche l’immagine discutibile di qualche loro calciatore che frequenta i nostri stadi (Stankovic, per capirsi, intervenuto con i suoi sodali sotto lo spicchio di tribuna agitando con la mano il simbolo dei nazionalisti nel tentativo inutile di sedarli) e di fatto compromesso la regolarità del girone di qualificazione all’Europeo. La Serbia, già in clamoroso ritardo prim’ancora della sospensione di ieri sera a Genova, è di fatto fuori dai giochi e il primato dell’Italia (cui spetterà il 3 a 0 a tavolino passando perciò da 7 a 10 punti tondi tondi) toglierà alla qualificazione ogni interesse, ogni suspence, specie dopo il pari strappato con i denti dalle Far Oer ai baldi irlandesi.
Non è escluso che la commissione disciplinare dell’Uefa attribuisca anche alla Federcalcio italiana responsabilità indirette legate all’organizzazione della sfida: i rapporti di arbitro e delegato Uefa dovranno chiarire se è stato sottovalutato l’arrivo di circa 400-500 facinorosi da Belgrado, se sono saltati, attraverso il setaccio nei pressi dello stadio genovese, i controlli. Di fatto, all’interno dell’impianto sono arrivati bengala, fumogeni e il tronchesino esibito dal capo-banda col cappuccio nero che ha messo in scacco una città, uno stadio. Di sicuro c’è bisogno non certo di una sentenza esemplare ma di un provvedimento che impedisca, come accaduto per gli hooligan dopo la tragedia dell’Heysel, a questi nuovi barbari di attraversare i confini del loro paese al seguito di una nazionale di calcio. Forse si può estendere la sanzione anche ai club della Serbia visto che quei galeotti in libertà di solito si fanno notare per incidenti quando di mezzo finisce la Stella Rossa di Belgrado, il club più famoso e titolato della capitale, ospitato in uno stadio enorme, il Marakanà.
Per fortuna del calcio, europeo e non, la decisione inevitabile di mettere fine alla pantomima della partita e di sigillare il martedì nero di Genova, è stata presa da uno scozzese coraggioso (l’arbitro Thomson) che ha ascoltato le voci e le ragioni dei protagonisti. «Non c’erano le condizioni di sicurezza per i calciatori» la sua asciutta chiosa alla serata da dimenticare. Viviano è stato chiarissimo: «In quella porta non ci sto...». Poco meno di sei i minuti giocati, con un cartellino giallo esibito sotto gli occhi di un serbo e un rigore reclamato da Pazzini per una spintarella in area di rigore. Bravissimo Cassano: s’è avvicinato al suo compagno d’armi della Samp e l’ha invitato a non protestare. Non era il momento adatto. Forse non bisognava nemmeno cominciare. Uefa e forze dell’ordine l’hanno fatto nella sincera convinzione di non darla vinta a quei barbari e di ridurre a zero i rischi per il resto del pubblico. Missione compiuta, sotto questo punto di vista.

È stato l’unico successo della nottata da incubo.

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