Letteratura

Così l'esercito di Hitler lasciò l'Ucraina senza ebrei

Ecco il breve testo del 1943 in cui Vasilij Grossman narra lo sterminio del suo popolo da parte dei nazisti

Così l'esercito di Hitler lasciò l'Ucraina senza ebrei

Vasilij Grossman (1905-64) entra nel 1941 con l'Armata Rossa nei villaggi della riva sinistra Ucraina; e persino le oche che «nelle aie si staccano da terra sbattendo le loro enormi ali bianche» hanno qualcosa di «strano», che «turba», e «urlano», e «esortano» i soldati dell'Armata Rossa a «non perdersi le scene tristi e tremende della vita», «e sembrano felici che i soldati siano lì... ma intanto «piangono e gemono e gridano per le disgrazie tremende...».

Rotto il patto fra URSS e Germania di Hitler, la guerra nazista contro il bolscevismo diventa subito sterminio degli ebrei. Cominciano quelle che Leon Poliakov in Il nazismo e lo sterminio degli ebrei (1954) chiama «le eliminazioni caotiche». Adolf Eichmann valuta a due milioni gli ebrei fatti a pezzi nel 1942 durante l'avanzata tedesca verso Stalingrado e il Caucauso. Nel 1941 mancano dati complessivi, proprio per la confusione in cui gli ebrei si rastrellavano, si ammassavano, si fucilavano a strati in fosse scavate sotto la minaccia delle armi da loro stessi, si bruciavano, si sterminavano a botte, si gasavano nei camion: però dati locali ce ne sono a bizzeffe, e tutti terribili. Per esempio, restando in Ucraina, si sa di 33771 ammazzati solo a Babij Yar vicino a Kiev tra il 29 e il 30 settembre, 34mila a Ponary, 175mila ebrei lituani, per non parlare della Polonia. Sono gocce nel mare di come gli ebrei uno a uno venivano cacciati, inquadrati, macellati in tutta l'Unione sovietica non solo dalle SS, ma da tutti i corpi dell'esercito tedesco più i volenterosi carnefici antisemiti dei Paesi occupati. L'ispettore degli armamenti tedeschi in Ucraina in un rapporto confidenziale racconta che «la milizia ucraina partecipava alle fucilazioni sistematiche in modo ufficiale... si raggiunse facilmente il numero di 150mila, 200mila arresti di ebrei nella zona occupata dell'Ucraina...» cui seguiva la «soppressione». Dove arrivavano i tedeschi, con l'aiuto qui degli Ucraini, là dei Polacchi, gli ebrei furono eliminati, uccisi uno a uno e tutti insieme. Si fa fatica a staccarsi dalle prime pagine del libro Ucraina senza ebrei di Vasilij Grossman - un lungo articolo pubblicato nel 1943 - in uscita da Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi. È una lettura ipnotica. La scrittura di Grossman è un dono metafisico. Parola dopo parola i suoi scritti, quando era comunista per amore e per forza e quando finalmente approda al sé stesso più onesto con Vita e destino e con Tutto scorre, ci spalancano davanti l'abisso in cui l'uomo può sprofondare. Lui, il Vassilij trentaseienne che entra nella sua natale Ucraina devastata, cerca insieme alla verità anche la madre Ekaterina Savel'evna, lasciata nel paese natale di Berdicev, dove venticinque SS e una torma di ucraini uccisero 30mila ebrei. La cerca, e non la ritroverà mai più. Saprà con certezza che è morta solo nel 1944.

Un grande scrittore parla sempre di sé, e in Ucraina senza ebrei Vasilij Grossman descrive l'annichilimento della popolazione ebraica dell'Ucraina: rompe così la legge del silenzio imposto dallo stalinismo. Ma è ancora comunista. Questo crea una specie di esplosione atomica di espressione nel descrivere insieme, poi, a un contraddittorio sforzo teorico di conciliazione con l'Ucraina, il mondo sovietico, e con una spiegazione dell'antisemitismo che funzioni coll'universalismo comunista: Grossman paga il conto del suo inquieto essere comunista mentre tuttavia descrive, da ebreo, l'indescrivibile, come non l'abbiamo letto nei pur tanti testi sulla Shoah. Dopo il grande gesto di audacia di porgere la verità nuda e cruda ai lettori del giornale Krasnaja Zvezda (Stella Rossa), per cui scrive da corrispondente di guerra, cerca di porgere una più sovietica elaborazione teorica della realtà: ma il testo parla soprattutto del suo dolore, della sua incredulità, del suo essere ebreo. Krasnaja Zvezda infatti lo censurerà: la stampa sovietica maggiore rifiuterà l'articolo. Esso troverà spazio marginale solo su pagine minori.

Vasilij è già qui lo scrittore epico che nasce comunista e entusiasta poeta della lotta sovietica e dell'anima russa contro il nemico nazifascista e che negli anni cambia. Arriverà gradualmente dopo un terribile corpo a corpo con la sua coscienza a descrivere per intero la perversione totalitaria, a descrivere la sofferenza desolante che nasce dall'identità del nazismo e del fascismo con l'ideologia e la politica comunista. Nel breve prezioso testo Ucraina senza ebrei, ovviamente suscitando nel lettore pensieri sulla situazione attuale, paragona allo sterminio degli ebrei la distruzione e la morte dell'Ucraina cristiana che ha trovato nelle città e i villaggi, e li chiama tutti per nome: «Starobel'sk, Svatovo, Kupjansk, Valujki, Vporosilovgrad...» e molti altri. In tutti trova le efferatezze tedesche, le ferite del popolo che piange: «... centinaia di paesini sulle rive della Desna e del Dnepr nella steppa circondata da pascoli, nelle casette sperdute dei cavatori di resina...», tutti hanno sofferto e sanguinano ancora per il «lavoro coatto, balzelli inauditi, bambini presi e portati in Germania. Case incendiate, granai saccheggiati, forche nelle piazze...». Orfani, vedove, vecchi: le loro «lacrime fluiscono come ruscelli nel fiume immenso del dolore e dell'ira di tutto un popolo». E tuttavia ecco, c'è qualcosa di molto di più di questo: «In Ucraina ... ci sono villaggi in cui regnano il silanzio e la quiete». In uno di essi, a Kozary sulla strada per Kyev, Vasilij vede le rovine in cui sono arse le famiglie che vivevano nelle 750 case cui i nazisti hanno dato fuoco: «Le fiamme non avevano risparmiato nessuno, né i vecchi, né le donne, né' i bambini». E qui Grosmann dice la cosa proibita dal regime comunista: «Mi sono scoperto a pensare che il silenzio di Kozary è il silenzio degli ebrei. Non ci sono più ebrei in Ucraina. Da nessuna parte: a Poltava, Char'kov, Kremencug, Borispol...».

In poche righe lo scrittore assomma tutto l'orrore di quella parte della Shoah in cui gli ebrei furono uccisi a casa loro uno a uno a milioni, ignari della sorte che li aspettava. La stessa censura che vieta a Grossman di scrivere aveva bloccato ogni notizia sulle stragi di ebrei già in corso. Il regime sovietico nascose lo sterminio, in parte a causa della confusa politica del patto Ribbentrop-Molotov poi abbandonato; in parte perché il vittimismo sovietico a fronte dell'invasione nazista non deve essere spezzato dalla specificità della Shoah, il «bene sovietico» si erge contro il «male nazista», non vuole ebrei fra i piedi; in parte perché Stalin praticherà in massa l'antisemitismo comunista.

Scrive Grossman, in poche righe, il compendio della Shoah: «... un popolo ucciso. Uccisi vecchi artigiani: maestri d'eccezione, sarti, cappellai, ciabattini, stagnai, orafi, imbianchini, pellicciai, rilegatori. Uccisi gli operai: scaricatori, meccanici, elettricisti, muratori, fumisti fabbri; uccisi i balagula, i trattoristi, gli autisti, gli ebanisti... i dottori: i medici generici, dentisti, chirurghi... uccisi gli esperti di biochimica e di batteriologia... Gli insegnati di storia algebra e trigonometria, gli assistenti di facoltà, dottorandi e dottorati, le maestre, le sartine, le nonne che facevano le calze... le belle ragazzi e le studentesse, le cantanti... i ciechi e sordi, uccisi i bambini di due anni e quelli di tre, uccisi gli ottantenni, i neonati che urlavano bramosamente attaccati ai seni delle madri fino all'ultimo... Hanno ucciso un popolo i suoi usi, i ricordi, le canzoni tristi, la poesia di una vita allegra e amara insieme...». Grossman è implacabile: «Se in una cittadina c'erano cento ebrei, furono giustiziati tutti e cento: non uno di meno mai... se erano cinquantacinquemila, tutti e cinquantacinquemila, non uno di meno». E spiega la differenza: «Nei territori occupati, i tedeschi uccidono per qualunque supposto misfatto, per un sorso d'acqua a un partigiano, per un saluto mancato... Gli ebrei invece solo perché sono ebrei».

La descrizione si avventura e svilupperà più avanti in altre implacabili pagine. Poi, quando Grossman si avventura nell'atteggiamento russo e ucraino, la sua fede comunista lo porta a un'analisi contraddittoria: da Gogol a Cechov, al popolo ucraino, alla Russia sovietica... gli ebrei sono cari a tutti fuorché al nemico nazi-capitalista: «Gli ebrei ci sono sempre... chi nato e cresciuto in Ucraina non si è nutrito delle scene di vita del popolo ebraico?». La descrizione della propria parte è nostalgica e a tratti dolce come lo può essere quella di un figlio, che, infatti, cerca la madre. Il suo avventurarsi sulla strada della definizione di antisemitismo come di un portato del fascismo capitalista, il suo avvicinamento ideale fra Ucraina e Russia, dimentico dell'Holodomor e della storia vera dell'antisemitismo come dell'odio più antico e diffuso, nulla toglie al suo coraggio di esporsi per raccontare la Shoah.

È Grossman, sempre troppo grande per essere parte di una storia sola.

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