Alessandro Massobrio
Sembra - a prestare fede a quanto raccontano le historie - che per il Columbus de Terra Rubra siano stati a dir poco esiziali gli anni del Ventennio. Era il periodo in cui Benito Mussolini lavorava alla creazione della Grande Genova, quella Dominante che avrebbe dovuto contendere con le rivali Barcellona e Marsilia il primato portuale nel Mediterraneo. E dunque si rivelava della più assoluta necessità l'appartenenza al capoluogo ligure di un nome di prestigio assoluto, anzi, di uno di quegli eroi che, per dirla con Thomas Carlyle, scrivono le pagine della storia.
Cristoforo Colombo era uno di quegli uomini e dunque Cristoforo Colombo doveva essere assolutamente genovese. Ma - si badi bene - non genovese di importazione, nato e cresciuto in qualche borgo della riviera. Cristoforo Colombo aveva ad essere proprio di Genova centro come può esserlo quella Porta dell'Olivella, che sorgeva press'a poco dove oggi s'incurva l'arcata del Ponte Monumentale e dove suo padre svolgeva di quella porta l'attività di custode.
Questo era e questo doveva essere tramandato ai posteri, ma proprio in quel torno di tempo accadde, a quanto sembra, un fatto nuovo. Monsignor Mario Righetti, arciprete della parrocchia di Quinto e grande studioso di cose colombiane, venne fuori con un pericoloso libello in cui, fornendo fior di prove assolutamente indiscutibili, veniva a concludere che quella Terra Rubra di cui Cristoforo soleva adornare il suo cognome, per aggiungere al proprio casato quel quarto di nobiltà che non possedeva, era, a conti fatti, proprio la Terra Rubra di Quinto. Borgo dove era nato e cresciuto, prima di salpare verso altri e più lontani porti.
Nel cielo del regime cominciarono subito a guizzare fulmini e saette. A quanto possiamo sapere da una ricostruzione di un testimone oculare, vale a dire Monsignor Luigi Borzone, che rilasciò, nel 1987, la storica testimonianza presso il Circolo dei Capitani Marittimi di Quinto, le cose si svolsero nel modo seguente. L'Arciprete Righetti venne, con decisionismo tipicamente mussoliniano, seduta stante convocato a Palazzo Petrone, allora sede della federazione provinciale del fascio, e lì si svolse il celebre dialogo che ha forse privato sino ad oggi Quinto di fregiarsi del titolo di patria di Colombo.
Sembra, infatti - sempre secondo il racconto di Monsignor Borzone - che il federale Sangermano non ci mettesse molto ad affondare il dito nel punctum dolens di tutta la questione. Egli ammise, infatti, che Una luce nuova sui natali di Colombo, il libro pubblicato in quei giorni dall'arciprete Righetti, era un testo encomiabile, che faceva onore non soltanto al suo autore ma a tutta Quinto, ma
ma
c'era qualcosa che non andava con le direttive di Roma.
A Roma, infatti, chiarì Sangermano, avevano ormai deciso, in altissimo loco, che Cristoforo Colombo, l'almirante del mare oceano fosse genovese e genovese doveva restare. La conversazione finì in questo modo, con il federale sicuro di aver per sempre sistemato il problema e l'Arciprete Righetti che, lungo ed allampanato com'era e reso ancora più lungo ed allampanato dalla sua zimarra clericale, se ne andava a gran passi, seguito a passi non meno lunghi dal futuro Monsignor Borzone, mentre una serie di pensieri tutt'altro che caritatevoli e cristiani gli si dovevano affollare nella mente.
E già perché l'arciprete Righetti, sant'uomo, senza alcun dubbio, era a modo suo un poco vendicativo e quell'affronto alla sua Quinto non era disposto in nessun modo ad ingoiarlo senza colpo ferire. Qualche tempo dopo, infatti, esattamente nel 1934, - ancora per esplicita ammissione di Monsignor Borzone - egli non solo commissionò il quadro di Colombo che si trova ancora nella chiesa di S. Pietro, ma riuscì persino ad impedire che in quella di S.Stefano, in via XX Settembre, fosse apposta una lapide in commemorazione del battesimo del navigatore.
Come a dire: se Quinto di Colombo non deve rivendicare i natali, ebbene, non li rivendicherà nessun altro. Insomma, una maledizione sul metro di «chi non beve con me, peste lo colga!», che in quel periodo, con Amedeo Nazzari sulla cresta dell'onda, doveva essere decisamente in voga. E così avrebbero continuato ad andare le cose se tutta una serie di storici - primo tra tutti Paolo Emilio Taviani, il massimo studioso di cose colombiane - non avessero deciso di porre nuovamente mano alla vexata quaestio, restituendo a Quinto quanto a Quinto spetta di diritto. Vale a dire, in primo luogo, il suo Colombo, che fortissimi indizi, spesso da molti volutamente sottaciuti in una singolare congiura del silenzio, indicherebbero proprio come nato in quella Terra Rossa, che dista dal centro di Quinto non più di una decina di minuti di una tranquilla passeggiata a piedi.
Ma procediamo con ordine, vale a dire seguendo passo passo quanto va dimostrando Gianfranco Rovani in Cristoforo Colombo il genovese di Quinto, un documentatissimo lavoro di analisi storica, che si legge con lo stesso fiato sospeso con cui siamo abituati ad addentrarci nei capitoli di un romanzo giallo. Un giallo senza dubbio perché di Colombo, di cui purtroppo non siamo in possesso di atti di nascita o di battesimo, la quintesità viene dimostrata attraverso una stringente argomentazione, che tende sempre più a stringere alle corde il contraddittore sino a farlo ammettere che, se così non fosse andata, sarebbe difficile pensare che fosse andata altrimenti.
Ma veniamo a noi. La famiglia Colombo, originaria di Moconesi, avrebbe poi lasciato la Val Fontanabuona per trasferirsi a Quinto, dove Domenico Colombo si sarebbe dedicato al commercio di lane e fibre tessili. E a Quinto, nella casa ubicata in località Terra Rossa, al di là dell'antica via Romana, proprio alle falde del Monte Moro, sarebbe nato, intorno al 1450 - 1452, il figlio Cristoforo.
Che poi Domenico fosse stato in possesso di una abitazione a Genova in vico dell'Olivella già a partire dal 1429, ciò ha poca importanza, perché successivi documenti - del 1445, del 1448 e addirittura del 1451 - lo indicano come habitator villae Quinti, vale a dire residente nel paese di Quinto, dal quale - come accade ancora ai giorni nostri per certi pensionati quintesi, che praticano la terapia del moto contro gli acciacchi della vecchiaia - ogni giorno si sarebbe recato a Genova per svolgere il suo lavoro. E ogni giorno, al calar del sole, avrebbe ripreso la stessa strada in direzione contraria.
La sua casa, del resto - come già si è detto - si trovava in località Terra Rossa, appena fuori il centro del borgo. E che lì abitassero da intere generazioni i Colombo era noto a tutti i Quintesi, al punto che, all'inizio del Novecento, sulla prima pagina del quotidiano Il Secolo di Milano, uno scrupoloso cronista ne faceva una dettagliata descrizione. Ed ancora negli anni Trenta, il maestro Pizzorno, autentica istituzione locale, vi conduceva le sue scolaresche, alle quali raccontava fatti e miracoli del navigatore, mentre i ragazzi sgranavano tanto d'occhi sui luoghi dove egli aveva cominciato a protendere lo sguardo a sud ed a ovest: verso il mare prima e verso l'oceano poi.
La casa è ancora là. Una casupola, per meglio dire, mezza nascosta dalla mole del convento delle suore della Madonna del Soccorso. Vi si giunge, arrampicandosi per una di quelle creuze che mozzano il fiato e tirano su per i monti, sino a giungere - guarda caso - in quel di Moconesi. Sulla facciata, ormai resa illeggibile dai secoli, vi è l'immagine della tre caravelle.
Come senza paura si spinse avanti Cristoforo, quando fu dinanzi alle colonne d'Ercole.