Controcultura

Così "Yoga" unì a Fiume reazione e rivoluzione

Un saggio ricostruisce la storia (e trascrive i testi) della rivista che segnò l'impresa di d'Annunzio

Così "Yoga" unì a Fiume reazione e rivoluzione

In qualunque Paese del mondo, l'Impresa di Fiume (12 settembre 1919-25 dicembre 1920) sarebbe festeggiata come una pagina gloriosa della storia nazionale, uno scatto d'orgoglio sfociato in una utopia che ancora affascina molti sognatori. In Italia, il colpo di mano di Gabriele d'Annunzio è stato invece catalogato alla voce cripto-fascismo e quindi rimosso per indegnità. Questo giudizio è stato smontato da Renzo De Felice, Michael Ledeen, Francesco Perfetti, Claudia Salaris e Giordano Bruno Guerri. È vero. Il Duce sfruttò abilmente gli strumenti e gli slogan della propaganda dannunziana. Le analogie davvero importanti finiscono qui. La distanza dal fascismo si può misurare nella «Carta del Carnaro» promulgata da Gabriele d'Annunzio. All'epoca era la Costituzione più libertaria e moderna d'Europa.

Il centenario della Marcia di Ronchi finirà nella solita stucchevole polemica: Gabriele d'Annunzio era fascista o antifascista? Nessuna delle due. D'Annunzio era dannunziano. Voleva imporre con la forza leggi che avessero il sapore di un bacio a mezzanotte. Il suo modello erano le antiche città-stato rinascimentali e la Serenissima. Non era il Duce, era un Duca o un Doge alla guida di un esercito simile a una compagnia di ventura. Per ordinare la società e proteggere i lavoratori, d'Annunzio rifondò le corporazioni, altra idea antica. Anche il mecenatismo artistico-musicale discendeva in linea diretta dal Cinquecento. Questa era la reazione. Poi c'era la rivoluzione: parità dei sessi, eleggibilità delle donne a ogni carica, suffragio universale, autonomia dei Comuni, insegnamento nelle varie lingue del territorio, istruzione primaria gratuita, assistenza sociale per malati e indigenti.

A Fiume si diedero appuntamento intellettuali, avventurieri, patrioti. Era benvenuto chiunque volesse abbattere la borghesia che aveva mandato in guerra i ragazzini e ora pretendeva di riprendere i suoi traffici come se nulla fosse. Tra i protagonisti dell'Impresa, dall'inizio alla fine, ci fu l'aviatore Guido Keller, l'Asso di cuori della mitica squadriglia di Baracca. Eroe di guerra, artista senza opere, futurista per caso, Keller a Fiume era un intoccabile. Poteva permettersi tutto, al diavolo le gerarchie. Capitava di incontrarlo nudo con l'aquila Guido sulle spalle. Salutista, nudista, bisessuale, cocainomane, Keller era l'unico legionario a dare del «tu» a d'Annunzio. A Fiume c'era anche Giovanni Comisso. Lo scrittore, ancora in armi, era di stanza nella città adriatica. Quando arrivò d'Annunzio, disertò per unirsi ai legionari.

Keller e Comisso daranno vita nella primavera del 1920 alla «Yoga», un'associazione, anzi: un'unione di spiriti liberi. La sede era una stanza in piazza del Fico. La discussione era aperta a tutti. Si parlava di abolizione del denaro, libero amore, governo, esercito, carceri, urbanistica. Dal movimento, presto si passerà alla rivista che avrà breve vita, solo quattro numeri, oggi quasi introvabili. Per questo è importante il libro di Simonetta Bartolini «Yoga». Sovversivi e rivoluzionari con d'Annunzio a Fiume (Luni editrice, pagg. 380, euro 25). La studiosa, oltre a un interessante saggio introduttivo, propone la trascrizione integrale del settimanale. La testata «Yoga» era inscritta tra una svastica e la scritta esplicativa «Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione». La svastica fu scelta in quanto antico simbolo di rinascita dalla morte. «Yoga» viene dalla radice sanscrita yui- che significa «unire». Ma unire che cosa? L'arcaico e il futuro, saltando la modernità gretta e decadente. La «Yoga» professa il culto dell'individualismo e dello spiritualismo. Immagina una società governata da una aristocrazia guerriera, capace di creare una comunità votata alla bellezza e sorretta da una nuova morale.

Il «genio della razza italica» è stato pervertito dalle «razze negative», inglesi, francesi, tedeschi, anche gli ebrei. L'avida borghesia ottocentesca ha creato la grande industria e ridotto gli uomini a massa di schiavi. Come c'è riuscita? Con il pretesto di introdurre democrazia e uguaglianza, principî deteriori della rivoluzione francese e del positivismo materialista. Anche il nazionalismo è un prodotto straniero: «L'idea del nazionalismo italiano ci fu instillata per mettere la sordina a una razza di stirpi libere e indomabili». Giusto rivendicare Fiume ma lo spirito italico è fondato sulla ricchezza delle sue antiche città-stato. L'Italia ha confini variabili. Il giornale arriva a criticare il Risorgimento, un errore in buona fede, un fallimento: l'unità ha soffocato la varietà. È necessario tornare alle tradizioni dello «spirito italico». Il popolo deve dedicarsi all'agricoltura, alla pesca e al commercio. Gli operai devono essere liberati «dalla schiavitù delle industrie parassitarie». L'Europa ci chiede di essere diversi da quello che siamo sempre stati. La conquista di Fiume è il primo grande atto anti-europeo degli italiani. Fondamentale, per non essere inghiottiti dai popoli del Nord, sarà mantenere la propria moneta.

Gli articoli uscivano in forma anonima, con una serie di simboli al posto delle firme. Merito di Simonetta Bartolini è l'attribuzione dei singoli «pezzi» a Comisso o Keller. Sicura è la corrispondenza tra il segno dell'infinito e Comisso. Molto probabile che dietro l'ellisse ci sia Keller. L'impressione è che più d'un articolo possa essere stato scritto in compartecipazione. I pezzi programmatici di Comisso sembrano essere una messa a punto di idee condivise. Da notare l'insistenza su alcuni concetti: il nazionalismo truffaldino; il ritorno alle tradizioni; la riforma dell'esercito; il fascino dei tiranni rinascimentali. Queste sono idee kelleriane, espresse in modo netto (ma non troppo elaborato) nella sua corrispondenza con d'Annunzio e ispirate dai libri di cui lo sappiamo lettore, primo fra tutti Il principe di Machiavelli.

Sarà forse il caso di prendere alla lettera Guido Keller quando sostiene che le riviste sono libri collettivi e che forse, un giorno, un'intera nazione scriverà la sua rivista.

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