Cronache

Cosa si nasconde dietro la targa Unesco

Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia

Cosa si nasconde dietro la targa Unesco

L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza.

PENISOLA A SECCO

Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari).

Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro.

ARRIVA LA STRETTA

A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno».

Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26.

RITORNI INSUFFICIENTI

In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi.

Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l' Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola.

Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza.

Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%.

ISPETTORI ITINERANTI

Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari.

Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni.

Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.

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