Letteratura

Il critico che alla Letteratura preferiva l'ideologia marxista

Morto a 89 anni il celebre studioso che ha influenzato profondamente la cultura italiana del dopoguerra

Il critico che alla Letteratura preferiva l'ideologia marxista

Gli piaceva ricordare che Pier Paolo Pasolini s'era incazzato. S'incontrarono alla Sapienza, «io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: Asor, l'uomo che mi ha fatto più male nella vita», racconta a Simonetta Fiori.

Uomo spinoso, Alberto Asor Rosa, morto ieri a 89 anni. Romano, classe 1933, marxista, laureatosi sotto Natalino Sapegno, sapeva essere riottoso coi dirigenti e indulgente con i potenti. Di fatto, per decenni, attraverso strumenti accademici pervasivi la Letteratura Italiana Einaudi coordinata dal 1977, ad esempio ha dettato la via ideologica della nostra cultura, ne ha voluto essere il Grande Timoniere. Ne aveva il nerbo. Lo screzio con Pasolini accadde nel 1965, quando Asor Rosa pubblicò per Samonà e Savelli il suo primo studio, il più noto, quello paradigmatico, Scrittori e popolo. Le «storie strappalagrime dei ragazzi di vita che muoiono nel crollo delle loro case» non piacquero ad Asor Rosa, che stroncò i romanzi «popolari» di Pasolini, accusandolo di esibizionismo partitico, descrivendolo come «l'ultimo grande letterato della tradizione italiana, con i caratteri e gli errori tipici di questa: l'egocentrismo, la sensibilità esasperata, la raffinatezza tecnico-stilistica, le ambizioni ideologiche, fortissime, ma non concresciute insieme con la ricerca formale». Anni dopo, disse che Pasolini l'assassinio se l'era cercato, «la sua morte fu coerente allo stile di vita».

Sulla scia di quello studio, Asor Rosa pubblicò moltissimo, con stile più incline alla dietrologia politica che alla critica letteraria. Ha investigato Calvino Stile Calvino e Machiavelli Machiavelli e l'Italia. Resoconto di una disfatta La cultura della Controriforma e Thomas Mann, principe della letteratura borghese; ha finito per occuparsi di Joseph Conrad (L'eroe virile, Einaudi, 2021). La letteratura gli interessava come alcova politica, come miccia per fare la rivoluzione. «Noi ci battiamo perché dal fondo oscuro di una difficile situazione emerga una generazione nuova di dirigenti e di militanti rivoluzionari della classe operaia», scrive, d'altronde, nella nota alla seconda edizione di Scrittori e popolo.

Tra le molte cose, collaborò a Mondo operaio e a Classe operaia; per un po' guidò Rinascita, la rivista fondata da Togliatti. In seguito ai fatti d'Ungheria del 1956, mollò il Pci. Vi rientrò anni dopo: nel giugno del 1979 fu eletto deputato nel collegio di Roma. Era l'ottava Legislatura, guidava le truppe Francesco Cossiga. La sua attività fu quasi irrisoria: tra l'altro, firma una proposta di legge per l'informazione e lo studio sui problemi della sessualità nella scuola pubblica (11 agosto 1979). Se ne andò quasi subito. Il 28 ottobre del 1980 scrisse una lettera al Presidente della Camera: ringraziò tutti «ho compiuto un'esperienza politica ed umana che resterà fondamentale per me e per il proseguimento delle mie attività anche intellettuali» per tornare a praticare in Università, alla Sapienza.

Quasi tutti i suoi studi sono pubblicati da Einaudi; un paio di anni fa Mondadori ha raccolto nei Meridiani le Scritture critiche e d'invenzione, titolo, si direbbe, neoromantico. In copertina, Asor Rosa campeggia a pieno viso: baffi curati, occhi felini, severi, capelli bianchi, pettinati con accuratezza. Il borghese leninista. Molto tempo prima Riccardo Malpica, già direttore del Sisde, aveva dichiarato che Asor Rosa, «noto professore universitario di estrazione marxista», era il «suggeritore delle Brigate Rosse»: le accuse, rilanciate da Indro Montanelli, all'epoca direttore della Voce, si rivelarono infondate.

Critico estraneo agli esercizi di stile, in un saggio del 2015, Scrittori e massa, non particolarmente originale, ribadì «la fine della società letteraria» e della «tradizione letteraria». Nel tentativo di censire il contemporaneo, Asor Rosa concluse che «per fare buona letteratura, anche all'altezza di questi nostri difficili tempi, non ci vorrebbe nient'altro che un po' più di amore, ossia... un po' più di conflitto». Frase buona per incontri occasionali. D'altronde, il critico arcipolitico nel frattempo si era dato alla letteratura. Il primo libro esce nel 2002, L'alba di un mondo nuovo; nel 2017 l'ultimo, Amori sospesi, una raccolta di racconti. In uno di questi, Il camionista solitario, ci sono un Hans Dietrich e una Edvige che tentano di fare del sesso disperato. La lettura è disperante: «Edvige gli si fece addosso, corpo contro corpo: e lo cinse con le sue due braccia all'altezza delle reni. Sì, abbracciare è un termine molto diffuso anche una pratica, ovviamente, alquanto scontata il cui significato è perciò tanto famigliare quanto inequivocabile». Peggio del peggior Pasolini.

Riteneva che la misura ordita contro Massimo Bontempelli, eletto senatore nel 1948, poi espulso a causa della sua passata appartenenza al fascismo, fosse una porcata, promossa «con un rigore che non fu usato nel confronto di altri». Aveva ragione. Il 31 marzo del 2019, su la Repubblica fondata da Eugenio Scalfari, recensì L'ora del blu, modestissimo libro di poesie di Eugenio Scalfari (leggere per credere: «E l'Io svolazza/ senza più consistenza/ in balenanti intervalli»). Il libro fu onorato con parole auree, a tratti imbarazzanti: «Eugenio Scalfari ci ha adusi alle sorprese. La sorpresa questa volta è un libro di poesie... L'Io... svolge un ruolo decisivo in quella che io mi azzarderei a definire la razionale fantasia di Eugenio Scalfari».

Meglio ricordarlo per altro.

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