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Crolla il mito del bimbo martire dell'Intifada

Non furono i soldati ebraici a sparare sul bambino palestinese. Quelle immagini simbolo smontate dopo sette anni di indagini

Crolla il mito del bimbo martire dell'Intifada

Quando il 30 di settembre verso sera giunsero le immagini dal posto di difesa dell’insediamento di Netzarim nella Striscia di Gaza, chiamai il giornale: «France2 ha mandato in onda 59 secondi di immagini in cui si vede un bambino palestinese, che si chiama Mohammed Al-Dura, morire tra le braccia di suo padre. Sono immagini terribili. Come è stato ucciso? In uno scontro a fuoco fra palestinesi e israeliani». E così è scritto nel mio pezzo che apparve sul giornale del giorno dopo. Non era difficile capire allora, nonostante le affrettate, affannate scuse dell’esercito israeliano, che non era affatto evidente a un giornalista che Mohammed Al-Dura fosse stato ucciso, in quei primissimi giorni dell’Intifada, mentre tramontava nel mare del terrorismo suicida il sogno degli accordi di Oslo. Bastava guardare con gli occhi, e non con il caleidoscopio dell’ideologia, per capire che le cose erano quanto meno incerte. Ma soltanto oggi, sette anni dopo, ora che Dani Seaman il direttore del “press office” israeliano a cui tutti i giornalisti si rivolgono per l’accredito, sostiene che quei 59 secondi sono stati fabbricati ad arte. Questa dichiarazione messa per iscritto, segue la decisione di un tribunale francese che ordina a France2, in seguito al ricorso di Philippe Karsenty, presidente di Media Ratings, un gruppo che controlla l’accuratezza dell’informazione, di mostrare tutto il materiale, 27 minuti, girato dal cameraman arabo Abu Rahman il primo di ottobre. Charles Enderlin, il titolare di France2, si era sempre rifiutato di consegnare la pellicola, e in prima istanza il tribunale gli aveva dato ragione. Adesso, la storia aspetta all’angolo. Per quel video, infatti, non si tratta più di cronaca, ma di storia.
Lo scontro di Netzarim vedeva da una parte alcune migliaia di palestinesi che presero d’assalto il posto di guardia israeliano, e la risposta israeliana. Nel video si vede, addossato a un muro che presto sarà crivellato di pallottole, Jamal Al-Dura assieme a suo figlio Mohammed. Jamal cerca inutilmente di coprire il ragazzino col suo corpo. I 59 secondi della tv francese assieme al sonoro di Enderlin indicavano una sorta di autentica fucilazione, protrattasi per lungo tempo, di un bambino innocente. Al-Dura diventò immediatamente il simbolo della seconda Intifada, la ragione vera per cui, poiché indicava e incarnava la crudeltà israeliana, ogni piano di pace era stato rotto. Al-Dura divenne l’icona, il martire per eccellenza, la ragione per cui non si poteva fare nessuna pace con Israele, la piccola figura agonizzante sulle ginocchia del padre divenne manifesto, francobollo, urlo di guerra nelle manifestazioni.
Due settimane dopo, due soldati israeliani entrarono per sbaglio a Ramallah, la folla li catturò, li fece a pezzi dopo averli trascinati in una stazione di polizia, i corpi vennero smembrati e trascinati con urla di vendetta e inni ad Al-Dura. Quando il giornalista Daniel Pearl fu assassinato, i rapitori invocarono il nome di Al-Dura. Anche Bin Laden ha invocato il suo nome in un video di reclutamento. La terrorista suicida Wafa Al-Samir nel giugno del 2005 si diresse all’ospedale infantile israeliano di Beersheva per farsi esplodere dopo aver detto di volere uccidere quanti più bambini possibile per vendicare Al-Dura. In Giordania, Egitto, Tunisia, sono stati stampati francobolli con la sua immagine. L’Autorità Palestinese ha spesso usato il nome di Al-Dura indicandolo come un esempio di martire ai bambini.
Adesso, ciò che sostanzialmente risulta chiaro, se non tutta la dinamica della vicenda, è che l’angolo da cui sono state sparate le pallottole è completamente diverso da quello in cui si trovavano i soldati, che erano in posizione laterale mentre i fori sono frontali; che i frammenti di cui è costruita la pellicola sono sette e che l’ultimo segmento mostra due dita che indicano un «take two», una seconda ripresa della morte del bambino, a cui molti non credono più. Sono diversi infatti a ritenere non solo che Al-Dura non sia stato ucciso dagli israeliani, ma che non sia affatto morto. Anche i vari cambiamenti di posizione della supposta vittima sono ormai causa di attenzione particolare. Un altro elemento sottolineato dagli osservatori, è che non si vede in tutto il film una sola goccia di sangue, anche se il padre ha parlato di numerose ferite subite anche da lui stesso. Shlomi Pereg, uno dei soldati che era sul posto, semplicemente sorride all’idea che uno dei suoi compagni abbia potuto sparare volontariamente su un bambino prendendolo di mira per tanti minuti: «Ci venivano addosso a centinaia con pietre e bottiglie molotov. Da dietro, qualcuno sparava. Se qualcuno fosse così pazzo da volere uccidere un ragazzino, ce n’erano a bizzeffe davanti a noi, cercavamo appunto di respingerli senza colpirli. Io personalmente non ho visto il padre e il figlio nascosti dietro il muro, certo erano in una posizione molto più esposta al loro fuoco che al nostro». Forse solo la pellicola che Enderlin dovrà mostrare dirà la verità. Sapremo innanzitutto se Mohammed è morto o se, come dice Nahum Shahaf (uno scrittore che ha ricostruito il caso, così come tanti altri giornalisti, storici, politici), lavora al mercato di Gaza, o semplicemente chi l’ha ucciso in quello scontro a fuoco.
Quello che sappiamo di certo e che distrugge l’onore stesso del giornalismo, è la consueta corsa alla condanna di Israele che abbiamo già visto. Come a Jenin, quando molti si affrettarono a scrivere che Israele aveva ucciso migliaia di persone, mentre si trattava di circa cinquanta palestinesi contro trenta soldati israeliani, uccisi in coraggiosi corpo a corpo casa per casa, oppure in Libano a Kfar Khan-a, dove i blogger hanno scoperto che la messa in scena di una strage mai compiuta era stata immediatamente presa per buona.

Basta che il colpevole sia Israele.
Fiamma Nirenstein

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