Cronaca giudiziaria

La sharia in casa: "Bengalese assolto perché lei lo tradì"

Assolto dalle violenze sulla moglie perché adultera

La sharia in casa: "Bengalese assolto perché lei lo tradì"

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Assolto dalle violenze sulla moglie perché adultera. A dirlo per ora è solo l'avvocata della vittima e quindi la cosa va presa con tutte le necessarie cautele. Ma un nuovo capitolo si aggiunge alla vicenda del 40enne bengalese catapultato a ottobre sui giornali dopo essere stato assolto dai giudici di Brescia dall'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale sull'ex moglie, una connazionale di 28 anni. A far discutere furono le motivazioni, ora fattesi ancor più meritevoli di attenzione se davvero frutto di «una nuova scriminante, quella dell'adulterio, anche peggiore rispetto a quella giuridicamente abominevole paventata dall'accusa di una presunta quanto inesistente scriminante culturale». A denunciarlo l'avvocata Valentina Guerrisi che assiste la donna nel ricorso in appello contro la sentenza del Tribunale di Brescia che ha assolto l'imputato dopo una prima richiesta di assoluzione avanzata dal pm Antonio Bassolino che chiamava in causa «l'impianto culturale di origine» della coppia. Si ricorderanno le discussioni, ora rinfocolate dopo che il ricorso è stato reso pubblico dall'Agi e nel quale si accusa il Tribunale di aver assolto perché il fatto non sussiste «in ragione di un giudizio etico e morale (prima ancora che giuridico) sul comportamento presuntamente tenuto dalla vittima, senza alcuna valutazione delle condotte dell'imputato». In particolare la difesa sostiene che il Tribunale abbia ignorato «le fotografie delle violenze, comprese quelle inerenti l'obbligo di indossare i vestiti tradizionali per concentrarsi sui messaggi tra la donna e il capitano della Guardia di Finanza (con il quale aveva una relazione, ndr) del tutto irrilevanti per i fatti in contestazione e carpiti illecitamente dall'imputato al solo fine di contrastare il tentativo della moglie di liberarsi dal suo giogo». Nello stigmatizzare le dichiarazioni del capitano, scrive Guerrisi, si afferma che «è inafferrabile per il collegio il significato di emancipazione che racchiude l'invio di foto in biancheria intima». E qui, verrebbe da dire se di mezzo non ci fossero delle condannabili violenze, la vicenda oltre che giuridica si fa boccaccesca. Con l'avvocata che sottolinea come spiaccia «rilevare come anni di battaglia del pensiero femminista, di studi e teorie sull'emancipazione non abbiano insegnato quasi nulla, visto che la libertà e l'autodeterminazione di una donna consistono soprattutto nella libertà di disporre liberamente del proprio corpo. L'emancipazione di una donna costretta a subire fin da piccola violenze sessuali, ricatti morali, matrimoni forzati, passa per l'autodeterminazione e l'acquisizione di consapevolezza del proprio corpo». La conclusione è che «se tutto questo viene valutato con le lenti del paternalismo moraleggiante di un tempo, ciò che se ne ricaverà è solo una nuova scriminante a ogni tipo di violenza o sopruso, ovvero quella dell'adulterio realizzando quel processo di vittimizzazione secondaria contro il quale la Corte europea ha già espresso il suo giudizio condannando l'Italia».

Un bel garbuglio nel quale è difficile districarsi, sempre dopo aver comunque e sempre chiesto la dura condanna di qualsiasi violenza. A maggior ragione nei confronti di una donna.

Ma certo a una giustizia italiana tradizionalmente paralizzata da commi e bizantinismi, mancava solo il dover tarare (a torto o a ragione) le proprie sentenze sugli usi e costumi altrui.

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