Scena del crimine

50 litri d'acido per cancellarla”: chi era Lea Garofalo, che lottò contro la 'ndrangheta

Non solo un delitto di mafia ma anche un femminicidio: chi era collaboratrice di giustizia uccisa nel 2009

Lea Garofalo e gli uomini al centro dell'indagine per l'omicidio
Lea Garofalo e gli uomini al centro dell'indagine per l'omicidio
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"La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte!". Sono parole che Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, scrisse nel 2009 all'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera aperta. La donna chiedeva conto nella sua missiva del tortuoso iter che aveva compiuto nella sua opposizione alle logiche e alle azioni mafiose: 7 mesi più tardi sarebbe uccisa. Aveva 35 anni e una figlia, Denise Cosco, di 18.

"La storia di Lea Garofalo è importante - commenta a IlGiornale.it il criminologo forense Francesco Esposito - perché, oltre a rappresentare un'importante operazione delle forze dell'ordine nel contrasto alla 'ndrangheta, si ricongiunge alla tematica - purtroppo attualissima - del femminicidio. Inoltre è una testimonianza che aiuta a scardinare e prevenire la patologia culturale del 'calabresismo tossico'. Mi riferisco a un'ideologia settaria, fortemente improntata sul patriarcato e rituali obsoleti, che rischia di compromettere la società non affiliata, le persone oneste".

L'opposizione alla 'ndrangheta

Lea Garofalo nacque nel 1974 a Petilia Policastro, oggi provincia di Crotone. Il fratello Floriano era un boss della 'ndrangheta, che venne arrestato nel 1996, poi assolto e in seguito ucciso in un agguato nel 2005. Ma tre anni prima, nel 2002, Lea Garofalo decise di entrare nel programma di protezione e iniziare una lotta alla criminalità, venendo trasferita con la figlia a Campobasso e svelando successivamente che il fratello sarebbe stato assassinato dal cognato, Giuseppe Cosco detto Smith, ovvero il marito di Garofalo.

Tuttavia non solo Garofalo venne ammessa al programma di protezione come collaboratrice e non testimone di giustizia, ma il programma fu per lei "a tempo determinato", tanto che nel 2006 venne estromessa: la donna fece ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, e fu quest'ultimo a riammetterla. Nel 2009 tuttavia rinunciò lei stessa alla protezione. Quando fu estromessa, le parole di Garofalo "non avevano avuto, fino a quel momento, autonomo sbocco processuale e gli elementi informativi raccolti erano insufficienti circa l'attendibilità, l'importanza e la rilevanza del contributo offerto".

Proprio in quell'anno, a maggio, l'ex marito Giuseppe Cosco inviò nella sua casa di Campobasso il sodale Massimo Sabatino, travestito da tecnico della lavatrice, allo scopo di sequestrare la donna e ucciderla. Il piano criminale fallì e Garofalo denunciò l'ex, comprendendo che era stato il mandante. "La storia di Lea Garofalo - illustra il criminologo - è ancora attuale per due motivi. Il primo perché la lotta alle mafie passa anche dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia. E poi perché, trattandosi di un femminicidio, apporta benefici anche in altri ambiti aiutando a contrastare tutte quelle narrazioni tossiche legate ad altri fenomeni criminali. Penso, ad esempio, alle giovani spose promesse della 'ndrangheta, di cui si parla sempre pochissimo. Si tratta di donne che vengono manipolate, alle quali viene letteralmente fatto il lavaggio del cervello. Vengono risucchiate nel sistema-famiglia senza neanche accorgersene, strumentalizzate per fini utilitaristici. Ed è anche grazie a loro se la 'ndrangheta sopravvive ancora oggi".

L'omicidio

Lea Garofalo

Il 24 novembre 2009 Garofalo si recò a Milano per incontrare Cosco. I due avrebbero dovuto parlare dei futuri studi universitari della figlia. Ma Garofalo fu sequestrata, tradotta in un edificio di via Montello - poi sgomberato e sequestrato nel 2012 - già molto noto alle forze dell'ordine per numerose attività della 'ndrangheta che, abusivamente, vi si erano svolte per decenni al suo interno.

È stato ipotizzato che la donna sia stata "interrogata" e quindi le sia stata usata violenza. Poi è stata strangolata con un cordino dallo stesso ex marito, il suo corpo fu sciolto in 50 litri di acido e infine fu arso per 3 giorni in località San Fruttosio a Monza, tanto che di lei sarebbero rimasti solo frammenti ossei, anche se in numero notevole. Solo nel 2013 ci sarebbero stati i suoi funerali.

"Lea - spiega Esposito - è stata uccisa con un metodo tipicamente mafioso, caratteristico proprio della 'ndrangheta: è stata distrutta con almeno 50 litri di acido. Sì è trattato di un tentativo di cancellazione dell'identità perché Lea, in quanto donna, rappresentava una minaccia per il patriarcato tossico della cosca. Nella logica delle famiglie 'ndranghetiste, una vita, soprattutto quella di una donna, non vale niente rispetto al nome e all'onorabilità della famiglia. I killer non ritengono di aver commesso un omicidio ma semplicemente di aver disposto altrimenti di un oggetto. Per loro, come poi è emerso da una nota intercettazione, Lea era 'la bastarda'. Proprio a voler rimarcare che non aveva alcun legame di sangue con la famiglia. Se non l'avessero uccisa avrebbero rischiato una faida interna che avrebbe procurato alla cosca un danno economico e sociale immenso. Pertanto l'omicidio e la distruzione del corpo era l'unica opzione possibile per scongiurare ogni possibile rischio".

Sei condanne, la forza di una giovane donna

lea Garofalo

A ottobre 2010 furono arrestati con le accuse di sequestro, omicidio e occultamento di cadavere Carlo Cosco, Massimo Sabatino, Giuseppe e Vito Cosco, Carmine Venturino e Rosario Curcio - che nel giugno 2023 si è suicidato durante la sua reclusione nel carcere di Opera. La difesa sostenne a oltranza che Garofalo sarebbe fuggita in Australia.

"Mi ripeteva – ha raccontato al processo Enza Rando, avvocato di parte civile e rappresentante di Libera – che voleva evitare a Denise la vita che aveva subito lei e che per questo avrebbe voluto andarsene via, per cambiare vita. Sognava l'Australia, o comunque un luogo sicuro dove poter voltare pagina. Insisteva molto sul fatto che lei portasse a termine gli studi".

Furono condannati tutti all'ergastolo nel 2012: in appello Giuseppe Cosco fu assolto, a Venturino - che dopo il primo grado permise di trovare i resti di Garofalo, poiché si era innamorato della figlia, tra l'altro sua ex fidanzata - la pena fu ridotta a 25 anni, mentre gli altri ergastoli vennero confermati. La Cassazione confermò il giudizio del processo d'appello.

Le condanne giunsero grazie alla testimonianza di Denise Cosco, che decise di opporsi al padre e al resto della famiglia - ripresa dalla stessa giovane nel suo vociare durante le udienze. "Mio padre - rievocò al processo, ricordando quel 24 novembre - in quell'occasione non mi guardò nemmeno una volta in faccia, diceva solo che se mia madre non si era presentata era perché mi aveva voluto abbandonare. Era impassibile".

Il piano, come ricostruito dagli inquirenti e poi riportato nelle motivazioni delle sentenze, fu di eliminare Lea Garofalo "dalla faccia della terra non solo uccidendola, ma anche disperdendone ogni traccia materiale", per via della sua "libertà […] rispetto alle regole di vita familiare sia rispetto a quelle imperanti in ambito criminale". "Dal punto di vista criminologico - conclude Esposito - il caso di Lea Garofalo è un reato contro le donne, che hanno il potere di interrompere la trasmissione dei geni malati della 'ndrangheta, di spezzare quel Dna tossico che garantisce il ricambio generazionale all'interno della cosca. Abbiamo il dovere di raccontare la testimonianza di Lea e di altre donne come lei che non si sono piegate alle logiche tossiche della criminalità organizzata.

È importante che le nuove generazioni capiscano che le mafie non sono un'opzione di vita ma una condanna a morte”.

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