Cronache

Dopo 14 anni, libera infermiera killer di Lecco

La donna, che uccideva i pazienti con una siringa piena d'aria, è uscita a sei anni dalla fine della pena. Il padre: "Dimenticatela, è guarita"

Dopo 14 anni, libera infermiera killer di Lecco

Li aveva uccisi così, con una siringa piena d'aria. Che aveva causato loro la morte per embolia. L'avevano soprannominata "l'Angelo della Morte". Ma Sonya Caleffi, nella vita, faceva l'infermiera. Fino a quando, il 14 dicembre 2004, era stata arrestata e condannata per l'uccisione di cinque pazienti e il tentato omicidio di altri due ricoverati. Tutti anziani e tutti nell'ospedale di Lecco. In quelle circostanze, confessò di aver agito per "farsi notare", salvando poi i degenti che aveva ridotto in fin di vita, e sentirsi valorizzata da colleghi e superiori.

Oggi, a 14 anni dall'arresto, l'ex infermiera ha riottenuto la libertà. Grazie a indulto e buona condotta, che le hanno permesso di uscire sei anni prima della fine della pena, prevedendo uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi passati dietro le sbarre. Altrettanto fondamentale, ai fini della riduzione, anche la sua confessione.

Caleffi, che era stata condannata in appello a vent'anni di carcere, aveva passato i primi periodi di reclusione al Bassone di Como, prima di essere trasferita all'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Poi l'arrivo a Milano, a San Vittore e a Bollate, dove aveva svolto il lavoro di centralinista. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, il padre avrebbe chiesto che su sua figlia "calasse l'oblio". E avrebbe aggiunto: "So che è difficile. Si è pentita, è stata curata ed è guarita. Ha scontato la sua pena".

Ad avviare le indagini su di lei, nel 2004, i familiari di una delle vittime e gli stessi sanitari della struttura dove lei lavorava, allarmati dall'improvviso incremento dei decessi nel reparto. Tutti avvenuti durante i turni della donna, oggi 48enne.

Per Claudio Rea, legale durante tutto l'iter processuale dell'ex infermiera, le giustificazioni riportate dalla donna sarebbero sempre apparse insufficienti, "perché, nella realtà, lei rimaneva ferma e imbambolata, travolta dalle sue stesse azioni". E ha aggiunto: "Non sapremo mai le motivazioni vere che, a mio parere, sono collegabili a un disturbo di personalità curato in questi anni".

Per l'avvocato, infatti, la detenzione avrebbe avuto su di lei un "effetto benefico", grazie anche a un lungo lavoro terapeutico, che l'avrebbe portata "a una presa di coscienza e al rimorso".

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