Cultura e Spettacoli

Abbiamo ascoltato le canzoni. Ecco il meglio di Sanremo

Abbiamo ascoltato le canzoni. Ecco il meglio di Sanremo

Se persino Michele Zarrillo ha alzato il ritmo, allora siamo davvero a una svolta. Mai come quest'anno i brani in gara al Festival di Sanremo sono stati così veloci, talvolta aggressivi ma, nel complesso, conservatori nei testi. La famiglia è al centro. Giordana Angi canta (da manuale) per la mamma, Paolo Jannacci è sorprendente per la figlia, il rockettaro Piero Pelù definisce «Gesù» il proprio nipote e l'amore è comunque l'obiettivo per quasi tutti. C'è chi, come Levante, canta la diversità e lo fa con la sua voce che è, di per sé, un grido d'allarme. Oppure chi, come Elettra Lamborghini, che nel proprio reggaeton (candidato tormentone primaverile) è «innamorata di un altro cabron». Come sempre, sul palco arrivano le autoanalisi, le riflessioni personali, i bilanci. Irene Grandi, scatenata nel brano di Vasco Rossi e Gaetano Curreri che inizia «a schiaffo», è «da sempre arrabbiata» e «se vuoi fare sesso, facciamolo adesso». Marco Masini, uno dei più raffinati, si guarda allo specchio in Il confronto dicendosi «E sei stato un bugiardo, non hai avuto coraggio». E se Le Vibrazioni sono molto radiofoniche, Tosca esalta il bel canto che meritava un testo meno stucchevole. Idem per Riki, che si diluisce nella ballata Lo sappiamo entrambi con autotune e vocoder ma al primo ascolto è volatile. Lo sono molto meno Anastasio, che è Rosso di rabbia e in certi passaggi musicali richiama addirittura i Rage Against The Machine, e Junior Cally, il rapper mascherato che al Festival mostrerà definitivamente il proprio volto. Il suo è un super pezzo, arrabbiato e incalzante, molto radiofonico ma adatto anche alle playlist. Ha riferimenti al «mojito» (ossia Salvini) e al «liberista di centrosinistra che perde partite e rifonda il partito» (ossia Renzi) ed è chiaramente contro il populismo. Insomma, loro due portano i «chitarroni» all'Ariston, molto più di quanto faccia il più rockettaro di tutti, ossia il cantante dei Litfiba Piero Pelù che mai e poi mai trent'anni fa avrebbe pensato di fare il nonno al Festival. Poi c'è Rancore, un'altra conferma: brano pieno di citazioni, da Paride a Newton, uno slogan vincente (quel «tatatà» che rimarrà impresso a tutti come il clap di Mahmood) e riferimenti all'11 settembre e all'Irak che trasformano il suo Eden in un «conscious rap». Molto bello. Promossa Elodie: la sua Andromeda è un «upgrade» che si candida alla vittoria o al Festival oppure in radio.

Poi ci sono i «fuori quota». Gabbani è imprevedibile e in Viceversa ha un testo molto (ma molto davvero) raffinato e complesso, confermando di essere uno dei pochi che continua a crescere. Anche Raphael Gualazzi fa gara a sé mescolando urban e Sudamerica in modo così tanto personale che aggiunge virtuosismi al piano. Altro pianeta. Anche Bugo fa gara a sé. Con Morgan porta un synth pop che mescola Alberto Camerini e Bluvertigo. Loro hanno già vinto. Invece Enrico Nigiotti è al di sotto delle aspettative, proprio come Achille Lauro, che replica i suoni di Rolls Royce in una non proprio esaltante Me ne frego. E se Diodato offre il testo più breve ma l'interpretazione più convincente, Alberto Urso domina tutti con una voce stellare in alcuni acuti. Infine I Pinguini Tattici Nucleari in quota «sorprese» ma non troppo perché partono da Lennon e McCartney ma si proclamano Ringo Starr seguendo però una linea testuale che fa venire in mente Nessuno vuole essere Robin di Cesare Cremonini. Infine c'è Rita Pavone che canta un pop rock potente e ben scritto che pochi a 74 anni potrebbero reggere.

Anche lei ha vinto a prescindere.

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