Controcorrente

Benvenuti nell'età dell'ignoranza

La società torna a dividersi in tribù. Che accettano nuove informazioni solo se confermano le loro idee

Benvenuti nell'età dell'ignoranza

Nel 1998 la rivista The Lancet pubblica lo studio di un medico britannico, Andrew Wakefield, che si propone di dimostrare l'esistenza di un legame tra casi di autismo e vaccini. La ricerca non è neutrale, visto che è pagata da un avvocato che cerca argomenti da usare in una causa contro alcune case farmaceutiche. In più Wakefield fa strage delle regole deontologiche usate in campo scientifico: manomette i reperti biologici, non si preoccupa di selezionare i pazienti secondo criteri di casualità, non istituisce un gruppo di controllo. Esamina in tutto 12 casi (dodici) e li presenta come rappresentativi dei 2 miliardi di giovanissimi che popolano i cinque continenti. Accortasi dell'errore la rivista «ritira» la ricerca, Wakefield viene radiato dall'ordine.
A prima vista potrebbe essere un incidente di percorso destinato ad essere presto dimenticato. Al contrario è la nascita del moderno anti-vaccinismo: da quel momento gli agguerriti simpatizzanti di Wakefield, contestatori della comunità scientifica, occupano la scena pubblica, soprattutto quella virtuale. In Italia la questione assume coloriture politiche e un movimento come i Cinque Stelle si impone anche grazie al suo atteggiamento antivaccinista e anti-scientifico.
La cosiddetta «società della conoscenza» inciampa proprio sulla capacità di distinguere tra pensiero logico-argomentativo e irrazionale approssimazione. Tom Nichols, docente all'americana Harvard, in un libro che ha avuto molto successo, parla di «era dell'incompetenza». Un ricercatore dell'Università di Torino, Giuseppe Tipaldo, in un bel volume appena pubblicato dal Mulino descrive quella che, a partire dal titolo, definisce «La società della pseudoscienza».

Rivoluzione all'opera

Fenomeni a prima vista lontani tra loro, dai no vax all'estremismo su alta velocità e grandi opere, dalle terapie sperimentali sui tumori fino al settarismo del dibattito politico-economico, hanno tutti un elemento comune: secondo Tipaldo nascono da un cortocircuito nei rapporti tra media, società, politica e scienza. E a fare andare in tilt un sistema già in equilibrio precario sono state le nuove tecnologie di comunicazione digitale. Nel passato a fare da ponte sociale erano i media più o meno tradizionali, fondamentalmente stampa e tv. Il loro ruolo, spesso tutt'altro che esemplare, aveva una caratteristica: il carattere «mediato», in qualche modo «filtrato», della comunicazione.
Oggi la Rete e i social hanno cambiato le regole del gioco. Piazze digitali come Facebook guadagnano (vendendo pubblicità e acquisendo dati) se il navigatore internettiano si trattiene sulle loro pagine. Per questo «sono progettate allo scopo di fidelizzare l'utente e tenerlo all'interno del proprio ecosistema il più a lungo possibile». Lo strumento utilizzato è semplice: i potenti algoritmi al lavoro selezionano tra i miliardi di informazioni disponibili quelle che pensano gli possano piacere in base ad acquisti, visualizzazioni e contatti pregressi. Così l'«orizzonte cognitivo» dell'utente viene plasmato escludendo ogni dissonanza, ogni contrasto: si cementano rapporti di pensiero solidissimi ma solo tra chi ha le stesse idee. Il risultato è quello che i sociologi chiamano «bolla invisibile»: non si viene mai esposti a pareri e voci eterogenee, tutto viene ridotto al semplice dualismo «like»-«don't like». Ai giornali generalisti e rivolti a tutti di un tempo si sostituisce il «me-journal» anticipato anni fa da John Negroponte del Mit di Boston: ognuno se lo fa su misura, ma proprio per le sue caratteristiche il «me-journal» rende impossibile alzare lo sguardo verso qualche cosa di nuovo e migliore.

Conferme cercasi

Così il dibattito diventa sempre più difficile, perché avviene tra tribù che non si parlano tra loro e l'ostacolo a una conversazione produttiva, sostiene il già citato Nichols nel suo libro, è il cosiddetto «bias (pregiudizio) confermativo»: si accettano informazioni e spiegazioni solo se confermano quello in cui crediamo.
Potrebbe bastare, ma non è tutto: il cittadino digitalizzato, dice ancora Tipaldo, subisce «una mutazione genetica» e non accetta più di essere «ricevente passivo della comunicazione mediata. L'uomo e la donna social pretendono infatti di essere riconosciuti come influencer, propagatori di trilioni di storie quotidiane capaci di condizionare i processi culturali in atto nella società». Si spiegano così i duelli a colpi di post tra scienziati come Roberto Burioni, virologo di fama, e interlocutori che sul tema dei vaccini e della medicina in genere non sanno nulla ma si muovono in base all'aforisma coniato a suo tempo dallo scrittore di fantascienza Isaac Asimov: «La mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza». Per molti analisti è il frutto di un ambiente dominato dal narcisismo individuale: il solo fatto di esserci autorizza chiunque a esprimersi su ogni ramo, o quasi, dello scibile umano.
Il fenomeno è generale, ma in Italia ha delle specificità culturali forti. Già Indro Montanelli sosteneva che la Penisola «è come un uomo con il sistema nervoso malato. E il sistema nervoso di un Paese sono le scuole e i giornali». Quanto alle scuole, si sa che l'Italia è in fondo a tutte le classifiche europee per alfabetizzazione della popolazione (penultima davanti solo alla Turchia per alfabetizzazione funzionale). «Da questo punto di vista, però, non siamo così peggiori di altri», spiega Tipaldo. «E anche per noi vale la regola generale: a nutrirsi maggiormente di pregiudizi, in campo scientifico o politico, non sono per forza quelli che hanno il titolo di studio più basso. Anzi, ci sono ricerche che dimostrano che anche negli Usa o in Gran Bretagna gli anti-vaccinisti più radicali sono piuttosto i laureati che vanno a informarsi su internet anche su temi di cui non sanno nulla».

Ci vuole fiducia

Il livello culturale però non basta a spiegare le caratteristiche italiane della Società della pseudoscienza. Secondo l'autore del libro pubblicato dal Mulino, «la specificità della Penisola non è tanto la presunta ignoranza quanto piuttosto la mancanza di fiducia». Fiducia, in questo caso, è quello che sociologi ed economisti di lingua inglese chiamano «trust», e che viene detto anche capitale sociale: la capacità di mutuo riconoscimento e leale cooperazione. Per l'attività economica è un potente lubrificante, per la società un fattore di coesione. Purtroppo, però, in Italia il grado di fiducia pubblica è basso: gli italiani non si fidano tra di loro e soprattutto delle istituzioni. Così nelle periodiche polemiche sui metodi alternativi di cura dei tumori (vedi anche l'articolo in basso; ndr) l'intuizione geniale del «santone» di turno viene contrapposta alla resistenza della comunità scientifica. E quest'ultima viene per definizione identificata con un nodo di inconfessabili interessi affaristici che si oppongono all'emergere del nuovo. Così il conflitto non è più tra scienza e false credenze ma tra idealismo e poteri costituiti.
Il modello si è visto all'opera anche nella recente campagna contro l'uso dell'olio di palma. Nel 2014 una petizione lanciata online chiede lo stop dell'utilizzo di questo ingrediente per uso alimentare. L'industria del settore si affretta a precisare che l'impatto ambientale della sua coltivazione non è maggiore di quello di altri oli vegetali, né esistono studi o ricerche che dimostrino possibili danni alla salute. Non serve a nulla: la palla di neve si trasforma in una valanga, le sottoscrizioni online aumentano fino a diventare centinaia di migliaia, i giornali si interrogano angosciati sul tema. Il consumatore si spaventa e le aziende si regolano di conseguenza: moltissime rinunciano all'ingrediente, pubblicizzando la novità sulle confezioni o nelle campagne pubblicitarie. Prove concrete di danni alla salute non ce ne sono, ma la pseudoscienza ha vinto e la psicosi ha la meglio sulla realtà dei fatti dimostrabili.

All'olio di palma rimangono fedeli la Nutella e pochi altri.

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