Politica

La bomba sotto l'esecutivo

Il voto sulla riforma è la mina letale. E si può disinnescare soltanto con le elezioni anticipate

La bomba sotto l'esecutivo

A volte il gioco delle parti in politica raggiunge vette impensabili. Al Senato alcuni parlamentari del Pd, cioè del partito di maggioranza relativa, perno del nuovo equilibrio politico, si interrogano sul futuro del governo Gentiloni. «Questo è un esecutivo fatto per cadere», osserva Luciano Pizzetti, ex-sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l'uomo che muoveva per Renzi le truppe in Parlamento. «Infatti - aggiunge pensoso - sto riflettendo se entrarci o meno». Una premessa interrotta dal consigliere di Bersani, Miguel Gotor, che chiede scanzonato: «Ma davvero ci saranno i referendum sul Jobs Act in primavera? Se non possiamo evitarli allora bisogna andare ad elezioni per rinviarli...». Pizzetti risponde scanzonato: «Ci vorrebbe un decreto del governo altrimenti si vota...». Già, ma quale governo? Il governo Gentiloni che sembra già un morto che cammina? Non per vestire i panni di Cassandra ma lì dentro, nell'ala del Parlamento più perigliosa, lo considerano già tale. «Il problema - spiega ancora Pizzetti, che conosce i numeri a memoria - non è il voto di fiducia, ma quelli per andare avanti. Ora ci si è messo pure Verdini. Dicono che Forza Italia darà una mano sul numero legale? Io non ci credo, ma, anche se fosse, non potrebbe più di tanto».

Il quadro è davvero sconfortante: un governo nato per cadere; che sulla sua strada ha mine letali come il referendum sul Jobs Act; e che per sopravvivere deve sperare nella benevolenza dell'opposizione. E, comunque, paradosso nel paradosso, a sentire i discorsi del Pd è stato studiato proprio per renderlo incapace di reagire alla forza di gravità. «Sì, è un po' così - spiega un altro piddino del Senato, Vito Vattuone - è fatto per non reggere. Ad esempio se si arriva al referendum sul Jobs Act il Pd è morto, perché è un argomento che entra nella nostra carne, nelle nostre divisioni. Se si riesce a votare a giugno si evita. Certo c'è bisogno della nuova legge elettorale e io non credo che il problema ce lo risolverà la Consulta. Si sa: quelli si comportano da principi ma sono solo avvocati!».

C'è molto fatalismo nell'aria che si respira dentro il Pd. Lì dentro ce l'hanno con il mondo intero, addirittura con la Consulta, ma soprattutto non capiscono come possano essere finiti in questo cul de sac. Renzi la fa facile: «L'unica strada è il voto, al più presto». Ma il partito è perplesso. «La situazione è complicata - ammette laconico il capogruppo del Senato, Luigi Zanda -. Ci sono tanti suicidi, anche le nazioni si suicidano. E se uno si vuole suicidare, c'è poco da fare». In realtà più che un suicidio l'idea di Renzi è una sorta di eutanasia programmata: la Dc si era inventata il cosiddetto «governo amico», un governo che non sentiva suo e che nel suo Dna aveva una durata limitata; il renzismo, invece, ha riveduto e corretto il meccanismo in ossequio alla modernità 2.0, e ha creato questa sorta di esecutivo, appunto, a eutanasia programmata. Che non possa sopravvivere è proprio nel suo atto di nascita. Nella sua natura, nella sua composizione. Nell'imprinting che l'ex premier e segretario del Pd gli ha voluto dare: una sorta di clone a durata limitata. Privato anche di quella cintura di sicurezza che aveva il governo Renzi, cioè l'apporto di Verdini e dei suoi. «Perché Verdini ha preso le distanze? Guardi - risponde Maurizio Sacconi, che è stato nella maggioranza del governo precedente prima di uscirne sbattendo la porta - non esiste in natura che Verdini sia contro Renzi. È stato un modo per rendere il governo Gentiloni ancora più precario. Questo è un governo che avrà contro tutti i giorni Renzi. Basta pensare che la battaglia più cruenta sulla sua composizione sia avvenuta sul puntiglio di Renzi di mettere Lotti nella casella di sottosegretario ai Servizi segreti. C'è voluto il no di Mattarella per impedirlo. Siamo al paradosso che i renziani sono all'opposizione, mentre l'ex Pdl tenta di non infierire. Io sono tentato di non votargli contro, ma di astenermi sulla fiducia».

Il gioco delle parti in politica. C'è il sottosegretario del Pd che non vuole entrare nel governo Gentiloni perché lo considera già morto. E il centrista d'opposizione che, invece, muore dalla voglia di astenersi. La verità è che il Pd per rimuovere le avversità del presente, pensa al futuro. Renzi parla solo del prossimo congresso, delle primarie, delle prossime elezioni. Tant'è che in questa crisi si è solo preoccupato di mandare il messaggio che è lui l'uomo che continua a contare. Ha fatto delle consultazioni parallele. Ha cercato di cambiare nella struttura il meno possibile. E quando è stato stoppato sulla nomina di Lotti ai servizi segreti, si è adoperato per far quadrare il cerchio delle nomine dei suoi. Ha chiesto alla Boschi se voleva stare al partito, al gruppo parlamentare o al governo. E quando quest'ultima ha scelto una poltrona a Palazzo Chigi, ha accontentato il suo desiderio con un laconico «come vuoi tu». Poi, per risarcire Lotti gli ha procurato una poltrona di ministro. Da ieri per lui la pratica del governo Gentiloni è già archiviata, pensa ad altro. E così tutti i suoi. «Il governo? Non andrà oltre giugno», risponde il fido Carboni. Una data di scadenza che neppure una persona prudente come l'ex viceministro dell'Economia, Enrico Morando, nasconde. Anzi, lui già sta pensando alla prossima legislatura. «Si vota prima di quest'estate», è la premessa del suo ragionamento: «Il problema è quello di dare a questo Paese una legge elettorale. Quella migliore potrebbe uscire dalla Consulta da quanto sento in giro: resta il premio di maggioranza al 40%; si cancella il ballottaggio; e vedremo come modificare la norma sui capilista bloccati. Insomma, una legge a impianto proporzionale».

Sembra di sentir parlare il Cav. Gentiloni già non è più nei pensieri di Morando. È il passato. Per cui il suo destino l'attuale premier se lo deve giocare in altri luoghi. Se vuole durare Gentiloni deve affidarsi alla palude, all'istinto di sopravvivenza dei parlamentari. «I miei amici senatori del Pd - confida Franco Carraro, gran conoscitore dei meandri del Palazzo - mi dicono che nel loro gruppo solo quattro sono disposti a fare insieme a Renzi i kamikaze del voto anticipato: Marcucci, Cociancich, Del Barba e Collina». Anche dentro Ncd la linea filorenziana di Alfano stenta a passare. «Angelino - racconta Antonio Gentile, riferimento di metà del gruppo del Senato - è pronto a immolarsi per Renzi, a seguirlo fino alle elezioni anticipate. Noi, invece, non ci suicidiamo per nessuno, tantomeno per Renzi». E anche i verdiniani ormai non lasciano carta bianca al capo. «Se sono d'accordo Denis e Renzi? Io so solo - risponde Antonio Milo - che Renzi ci ha dato una grande inc...». Una constatazione che spinge Domenico Auricchio, un altro napoletano della compagnia, a trasformare un desiderio in una profezia: «'Sta legislatura ha da durà".

Per cui mentre i grillini minacciano l'Aventino per avere le elezioni, i leghisti si schierano davanti a Montecitorio inneggiando alla sovranità popolare, i renziani teorizzano un governo a scadenza, Gentiloni per durare si deve affidare alla benevolenza di una parte dell'opposizione e alla palude. Essendo un uomo di mondo, si dà da fare. Come può. Se Renzi ha sempre avuto un atteggiamento strafottente verso il Senato, lo ha dato per morente fin dal suo primo discorso da premier, Gentiloni ieri mattina si è presentato lui stesso a Palazzo Madama per dare la notizia della soluzione della crisi di governo e si è intrattenuto affabilmente con gli ex morituri diventati redivivi. Ma può bastare? Difficile, anche perché per scongiurare le elezioni questa classe dirigente rischia un pericolo ben più grande, il classico epilogo dalla padella alla brace. «Questo governo è una cagata galattica - riflette il leghista Raffaele Volpi -, ma quelli che più mi sorprendono sono quelli che stanno qua dentro, in Parlamento. Qui senza nessun input dei gruppi dirigenti, la base grillina e quella leghista stanno trovando un minimo comun denominatore: la voglia di elezioni alla faccia dei parlamentari che vogliono solo la pensione. Quel 67% che è andato a votare al referendum, è il dato più eclatante.

Un dato su cui tutti gli abitanti di questo Palazzo dovrebbero riflettere».

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