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È Casaleggio il vero colpevole della Caporetto

La batosta di oggi non è inaspettata. E più che colpa di Luigino è figlia della strategia suicida della Casaleggio

È Casaleggio il vero colpevole della Caporetto

Ora è facile dire che è tutta colpa di Di Maio. Come se Giggino fosse il grande manovratore che, in solitaria, ha portato il vascello a Cinque Stelle contro gli scogli delle elezioni europee. Uno vale uno, dicevano una volta i grillini della prima ora. Adesso dovrebbero ricordarsi che il capo vale tutti, e il megaschiaffo elettorale di domenica è un ceffone in pieno volto non solo al leader politico ma a tutto il Movimento. A partire da Casaleggio. Analizziamo alcuni numeri per cogliere la portata della débâcle pentastellata. Il M5s alle elezioni politiche del 2013, alla Camera dei deputati, raccoglie il 25,55 per cento delle preferenze, pari a 8 milioni e seicentomila voti. Un grande successo. Le europee evidentemente portano iella a Di Maio e soci, l'anno dopo, nel 2014, vanno peggio del previsto e raccolgono «solo» il 21 per cento con un totale 5 milioni e ottocentomila preferenze. Poi andiamo alle politiche dello scorso anno e qui fanno il botto: 32,7 per cento 10 milioni e settecentomila schede. Sono il primo partito. Ma hanno già i mesi contati. Anche se non lo sanno. Domenica il redde rationem: si sono arenati al 17 per cento con quattro milioni e mezzo di preferenze. In un anno di governo hanno perso per strada sei milioni di voti, raccogliendo il peggior risultato degli ultimi sei anni: non erano mai andati così male.

Ma la batosta non arriva all'improvviso. Dopo la vittoria alle politiche del 4 marzo 2018 i grillini non ne imbroccano più una. Il 22 aprile si vota per rinnovare il consiglio regionale in Molise e non toccano palla, la settimana dopo stesso risultato in Friuli Venezia Giulia, così come il 20 maggio in Valle d'Aosta e il 21 ottobre in Trentino Alto Adige. Sempre a mani vuote. Nel 2019 lo spartito non cambia: male il 10 febbraio in Abruzzo, male il 24 dello stesso mese in Sardegna e anche il 24 marzo in Basilicata. Sette elezioni e sette flop consecutivi. Ieri l'ottavo. I sintomi di un morbo che si stava infiltrando nel corpo del movimento c'erano tutti. Un virus che nessuno tra i vertici pentastellati ha voluto diagnosticare. E qui torna in ballo Luigi Di Maio, capo politico e capro espiatorio del Movimento. Il fallimento di Giggino non è solo un fallimento personale - come ora i grillini ci vorrebbero far credere - ma è una colossale tranvata per l'idea stessa dei Cinque Stelle.

È il partito del popolo che è rimasto senza il popolo. Il movimento anti-casta che diventato casta è rimasto solo anti, ma non si sa più anti cosa. Non lo sanno loro e non lo sanno neppure quei sei milioni di elettori, che sembrano aver smarrito la strada per il seggio. Sui grillini aleggia un'aria pesante di disarmo. Lo si è visto chiaramente il 24 maggio, ultimo giorno di campagna elettorale. Il Movimento chiama a raccolta i suoi sostenitori per un ultimo comizio in piazza Bocca della Verità a Roma. Sul palco c'è tutto lo stato maggiore: da Di Maio a Casaleggio, passando per Di Battista e ministri vari. Sotto il palco poche migliaia di persone, quasi nessuno. Piazza semivuota. Un'immagine che valeva più di mille sondaggi.

Ora, a conti fatti e a urne chiuse, Di Maio si batte il petto, i colonnelli battono i piedi e Casaleggio sbatte i pugni. Il software (il Movimento) si è rotto, ha un baco, non funziona più e la colpa non può essere soltanto dell'hardware (Di Maio). Per i Cinque Stelle è finita un'era e il capolinea si avvicina. Salvo inversioni di rotta, le sconfitte non si fermeranno a otto.

Con o senza Di Maio.

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