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Il cibo che fa la storia

Dallo Statuto Albertino ai futuristi fino agli Anni ’60 Basta leggere la lista dei cibi per capire come siamo cambiati in un secolo

Il cibo che fa la storia

I più belli sono decorati da artisti celebri: Alphonse Mucha, Jean Cocteau, ce n’è qualcuno perfino di Renato Guttuso. Piccoli capolavori nati per un uso modesto: raccontare ai commensali quello che mangeranno di lì a poco. Eppure sui menù (con l’accento, all’italiana, oppure senza, alla francese) si scrivono libri eruditi e si tengono pensosi convegni. L’Academia Barilla di Parma conserva un archivio storico ricco di ben 5.000 esemplari raccolti negli anni da uno dei più famosi collezionisti europei, il conte Livio Cerini di Castegnate. I menù del passato raccontano di incontri e avvenimenti storici, di famiglie reali, di grandi appuntamenti della mondanità borghese. I più recenti parlano delle feste, in molti casi della cena di San Silvestro, mentre sono più rari quelli legati al Natale: documenti di convivialità privata (a differenza delle «carte» dei ristoranti), per il loro carattere celebratorio mal si conciliano con il raccoglimento di un giorno come il 25 dicembre. In poche righe, a prima vista una semplice elencazione di piatti, testimoniano sorprendenti spaccati di vita quotidiana e forse qualche cosa in più. Come dimostra la storia di quattro menù stampati tra la metà dell’Ottocento e gli anni Sessanta del secolo scorso. RIVOLUZIONE A PARIGI L’Academia Barilla, uno dei fiori all’occhiello del gruppo alimentare, è un prezioso museo del cibo e della cucina: 11mila volumi tra antichi, moderni, raffinate stampe, la già citata raccolta di menù. Giancarlo Gonizzi, il direttore, mostra per primo uno dei più antichi, del 1848. «È un pranzo organizzato in occasione dell’approvazione dello Statuto Albertino. E le particolarità (vedi sopra; ndr) iniziano dalla prima riga: il pasto è “alla russa”. Un riferimento diretto alla storia della cucina». La tradizione dei grandi banchetti prevedeva che i vassoi di portata, le grandi zuppiere in cui era contenuto il cibo fossero tutti in tavola all’arrivo dei commensali. Era l’ostentazione principesca della ricchezza e la storia riferisce delle incredibili decorazioni realizzate da Marie-Antoine de Carême, nome illustre della tradizione culinaria francese, vere e proprie architetture di panna, burro e zucchero. «Tutto cambia nel 1810», spiega Gonizzi, «quando il principe Alexandre Kourakin, ambasciatore dello zar a Parigi, organizza un pranzo nella sua casa di Clichy. Gli ospiti entrano nella sala da pranzo e rimangono sbalorditi: i piatti ci sono, ma in tavola non c’è altro, all’apparenza non c’è nulla da mangiare». Ovviamente non è così: semplicemente è nato il pranzo «alla russa», in cui le portate vengono proposte dai camerieri una alla volta. I vantaggi sono evidenti: i piatti non si raffreddano e il pasto risulta più ordinato, senza che gli ospiti debbano affannarsi intorno ai vassoi. Un difetto c’è: non si sa più che cosa arriverà in tavola. E proprio da questa esigenza nasce il menù. L’innovazione, però, fa fatica ad imporsi: ancora ben oltre la metà del secolo quando si invita qualcuno si sente la necessità di specificare se ci sarà un «servizio alla francese» (ora diremmo «a buffet») o, appunto, «alla russa», con annesso menù. Nel 1856 Urban Dubois ed Emile Bernard, cuochi dell’imperatore tedesco e autori de «La cuisine classique», best seller culinario dell’Ottocento, avvertono l’esigenza di spezzare una lancia a favore della novità: «È doveroso informare i commensali della composizione del pranzo affinché possano fare le loro scelte e regolarsi nella quantità». ARTUSI IL FONDATORE Per la grande storia il 1907 è l’anno del trattato anglo-russo che porterà alla Triplice Intesa. Per la storia minore il 1907 è l’anno di un piccolo grande evento: i Savoia decidono che i menù preparati dal cerimoniale non saranno più in francese ma in italiano. Più o meno in quegli anni Guglielmo II decide di passare al tedesco, mentre la famiglia reale britannica e Francesco Giuseppe d’Austria rimangono fedeli alla lingua ufficiale dell’aristocrazia. La decisione delle case regnanti d’Italia e Germania (il menù pubblicato in alto è del 1910 e si riferisce a un pranzo nella residenza di Racconigi) è un riflesso dell’ondata di nazionalismo che spazza in quegli anni l’Europa. E la valorizzazione dell’identità nazionale passa anche dai fornelli. Nel 1891 un agiato commerciante nato a Forlimpopoli e residente a Firenze, Pellegrino Artusi, pubblica «La scienza in cucina», primo tentativo di unificare le diverse cucine regionali italiane, di mettere insieme le tradizioni dell’olio, del burro e dello strutto. Lo sforzo dello scrittore e gastronomo è in diretta contrapposizione con il modello d’Oltralpe: «La cucina italiana può rivaleggiare con la francese, e in qualche punto la supera», scrive orgoglioso. «Il riferimento è chiaro», spiega Emanuela Scarpellini, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano, un’autorità per quanto riguarda la storia dei consumi (sul tema ha scritto tra l’altro «A tavola! Gli italiani in sette pranzi»). «Le corti rinascimentali della Penisola erano state un modello di gusto e raffinatezza, dal Seicento in poi il pallino passa alla Francia; Versailles diventa un faro per tutta Europa. Da lì parte una rivoluzione: in precedenza e fino a tutto il Rinascimento la maggiore abilità di un cuoco, come in epoca romana, era quella di mescolare i sapori; il miele si combinava con le spezie, l’agrodolce la faceva da padrone. I francesi impongono gusti definiti e canonizzano gli standard destinati a dominare la cucina internazionale». Da questo punto di vista il menù di Racconigi è un punto di passaggio. «La struttura è classica, con un potage che apre il pranzo e il cui nome viene appena italianizzato. Poi però ci sono piatti della tradizione locale come i cardi alla piemontese». PASTASCIUTTA TI ODIO Il Manifesto della cucina futurista, scritto nel 1931 da Filippo Tommaso Marinetti è un’invettiva contro un grande nemico, la pastasciutta. È lei, l’«assurda religione gastronomica italiana», che ha la colpa di «contrastare collo spirito vivace e coll'anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. Nel mangiarla essi sviluppano il tipico scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo». Una cucina adatta ai tempi deve impedire, scrive Marinetti, che «l'Italiano diventi cubico massiccio impiombato da una compattezza opaca e cieca». Senza arrivare all’intransigenza futurista, nel Ventennio anche la cucina diventa fascista. E a testimoniarlo sono i menù ufficiali: quello pubblicato sopra è di un pranzo offerto a Palazzo Venezia nel 1937 dal Capo del Governo Benito Mussolini in onore del gerarca nazista Hermann Göring. «La cesura con il passato è evidente», spiega Emanuela Scarpellini. «Restano elementi della tradizione come il “ristretto” e i binomio pesce-carne, ma la struttura è leggera, funzionale, moderna». Altra differenza è l’insistenza nazionale: il ristretto è «all’italiana», la trota del Garda, i capponi lavorati alla «spoletina», gli asparagi «d’Imperia», senza parlare del gelato siciliano. Si compie l’opera avviata da Artusi: nel 1931 il Touring Club ha pubblicato la prima «Guida gastronomica d’Italia», una sorta di censimento delle cucine regionali. L’Italia ufficiale scopre le specialità locali. Comprese, con buona pace dei futuristi, le tante pastasciutte della Penisola. L’INDUSTRIA IN TAVOLA Le cosiddette razioni K sono le razioni di emergenza in dotazione ai soldati americani. A metterle a punto nel corso del secondo conflitto mondiale è un nutrizionista, Ancel Keys, che seleziona una serie di alimenti in grado di conciliare leggerezza e potere nutritivo. Alla fine della guerra Keys continua i suoi studi e nel 1958 avvia un confronto tra i regimi alimentari di alcune nazioni nel mondo. C’è l’Italia, ovviamente gli Stati Uniti, ma si arriva fino al Giappone. I risultati dimostrano che chi mangia all’italiana ha meno problemi cardio-circolatori e Keys diventa il primo alfiere di quella che è ormai conosciuta come dieta mediterranea. Ma a creare una profonda frattura con il passato più recente è un altro fattore: lo sviluppo di un complesso sistema produttivo che avvia la colonizzazione delle tavole. Il cibo industriale sconfigge la penuria e cambia il gusto degli italiani: il grasso, fin qui sintomo di salute e benessere borghese, diventa un nemico malsano da combattere; i valori simbolici prevalenti sono dinamismo e movimento. I menu riprodotti in alto, del 1962, sono tratti da un manifesto pubblicitario degli autogrill Pavesi. Anche questo è un simbolo di modernità: il primo viene realizzato nel 1947 lungo la Milano-Torino, vicino a Novara; poi, tra il 1958 e il 1959 seguono altri punti di ristoro sulla Milano-Laghi, sulla Milano-Venezia e sull’Autostrada per Genova. Le parole d’ordine diventano salute, efficienza e razionalità.

E per la prima volta fanno capolino sulla scena pubblica nuove e misteriose entità destinate a rimanere protagoniste anche nei decenni successivi: le calorie.

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