Cultura e Spettacoli

Così sono diventato un romanzo vivente

Nel libro di Francesco Pinto il protagonista è un giornalista e si chiama Vittorio Macioce, come l'autore di questo articolo. Che qui spiega tutto...

Così sono diventato un romanzo vivente

Non sono più un personaggio in cerca di autore. La colpa è di un signore napoletano, uno di quelli in fuga dal proprio tempo, con gli occhi che guardano lontano, oltre l'orizzonte. Si chiama Francesco Pinto e racconta storie di pochi avventurieri, di cani sciolti che sognano imprese improbabili, che se riescono, però, cambiano la storia di un Paese. È uno che ama una certa razza di italiani che, se ancora esiste, vive nascosta e sommersa dal rumore di fondo della gente, della folla, di volti senza volti con il sorriso rassicurante di chi si sente maggioranza. Questi pezzi di minoranza intraprendente ancora esistono, faticano, si affannano a cercare e a svelare un futuro, solo che la stagione non li aiuta. Così Pinto li va a ritrovare nel passato, negli anni '50 o giù di lì, come è successo con chi immaginò di unire, controvento, Nord e Sud con una spina dorsale lunga e impossibile e la battezzò Autostrada del Sole (La strada dritta) o con i pionieri che spedirono il primo satellite italiano nello spazio (Il lancio perfetto).

La storia di come il mio nome sia finito sulla testa di un personaggio comincia con una telefonata poco prima di Natale. Un regalo, insomma. È Francesco e mi dice: «Sto scrivendo il mio terzo romanzo. Siamo a Roma, nel 1960, ed è l'estate delle Olimpiadi. Il protagonista è un giornalista. Posso chiamarlo Vittorio Macioce?». Fatto. Ecco I giorni dell'oro (Mondadori, pagg. 240, euro 18). Ora fa un po' strambo, una sorta di straniamento, vedere uno che va in giro con il tuo nome nell'agosto del 1960, quando peraltro non sei ancora nato, e ti ci specchi, quasi ti riconosci, come se fosse un po' un altro te stesso spedito a fare guai in una dimensione aliena dello «spaziotempo». Non sono io, in fondo porta solo a spasso il mio nome, però mi sta decisamente simpatico. Mi assomiglia? Un po', soprattutto nei difetti. Per esempio la mattina fatica a svegliarsi ed è sempre in affanno con l'orologio. Perché perde gli accendini e si ritrova in tasca quelli degli altri. A tavola beve il chinotto e poi crede in un futuro diverso, alternativo.

Il Vittorio Macioce del romanzo lavora per Paese Sera, ma siccome è un cane sciolto si muove controcorrente rispetto alla linea editoriale. Penso che potremmo andare a cena insieme e trovarci ad amare le stesse cose. Elsa, per esempio, la ragazza bolzanina, una delle interpreti ufficiali arruolate dal Coni per aiutare i giornalisti a districarsi in quella babele di lingue e di razze che da sempre sono le Olimpiadi. Elsa è bella, ha carattere, sorride al corteggiamento di questo giornalista che cerca di tracciare la mappa di un mondo in metamorfosi.

Leggo e comincio ad invidiare l'altro Macioce. Questa Roma sembra un sogno. Seguo la corsa di Livio Berruti benedetta dalle colombe. Cassius Clay già punge come un'ape e danza come una libellula. C'è un istriano cacciato dalla sua terra che un giorno alzerà il braccio al Madison Square Garden come campione del mondo dei pesi medi. È Nino Benvenuti. C'è Wilma Rudolph, bellissima gazzella nera, con quelle gambe più veloci della poliomielite. C'è un passato carico di futuro.

Perché Pinto mi ha regalato una vita da personaggio da romanzo? A Francesco mi lega un crocevia della storia, i nostri padri, tutti e due carristi, hanno combattuto l'8, 9 e 10 settembre del 1943 a Porta San Paolo. Quel giorno i soldati dell'Ariete II erano un pugno e sono stati eroi senza saperlo. Sono usciti vivi per miracolo.

Erano ragazzi di vent'anni e nei libri di storia c'è scritto che hanno salvato Roma.

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