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Se il campione che ha tutto piange per il papà che non ha visto

Se il campione che ha tutto piange per il papà che non ha visto

I never saw the video. L'avambraccio destro sul volto per nascondere le lacrime, una due, tre volte, e poi il polso per asciugarle. «Non avevo mai visto il video». È il 2004 e ci sono gli europei in Portogallo. CR7 non è ancora un marchio globale. È da poco arrivato al Manchester United e c'è questa scena: un uomo stanco, invecchiato troppo in fretta, che sorride nel nome di suo figlio. Si chiama José Dinis Aveiro e tra poco meno di un anno morirà per un accumulo di trigliceridi nel fegato. La diagnosi è insufficienza epatica. La causa è l'alcol. Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro è suo figlio.

È un'intervista per Good Morning Britain. Cristiano piange e qualcuno gli ha dato un fazzoletto di carta. Dice sorry.

Piers Morgan chiede: «Cosa è per te la tristezza?». Silenzio. Poi la risposta: «Essere il numero uno e pensare che lui non ne sa nulla. Non mi ha mai visto ricevere premi. Il resto della mia famiglia sì, mia mamma, i miei fratelli, anche il mio figlio più grande, ma lui niente».

Non c'è solo la riscossa, il riscatto, in queste lacrime. È qualcosa di ancora più profondo. Cristiano Ronaldo fa i conti con il padre, con un uomo che non gli è stato accanto perché «era sempre ubriaco». Un padre che non poteva essere un esempio. Un padre sconfitto e perdente. Un padre che alla fine della sua vita ha ritrovato un po' di orgoglio nelle avventure del figlio. Solo che di questa storia ha visto solo l'inizio. Non è poco, perché Cristiano era già un predestinato. Non era difficile scommettere sul suo talento. Quello che il signor Aveiro ha perso è la parte veramente straordinaria di Ronaldo. No, non sono i successi, non sono i palloni d'oro, non sono le Champions o l'Europeo. Non è neppure la soddisfazione con cui adesso dice, ignorando Messi, sono «il numero uno». Quello che il padre non ha visto è la fatica. È la determinazione, la rabbia, l'ossessione con cui il talento sfida se stesso e cerca i limiti, si scolpisce, si disegna, non si accontenta, ma cerca giorno dopo giorno di essere all'altezza del proprio «io». José Dinis Aveiro ha perso il sudore del figlio.

Le lacrime di Ronaldo sono meno banali e retoriche di quello che sembra. Non è il rimpianto per i premi non visti dal padre. È dire: guarda papà, io ho redento i tuoi sensi di colpa, ora puoi perdonarti. Il senso finale di questa storia in fondo sta qui. Cristiano è benedetto dalla fortuna. José non aveva il suo talento. Il talento scende dal cielo senza meriti. È la sorte, il caso e un incrocio magico di cromosomi. Se non ce l'hai non puoi farci nulla e non serve neppure sacramentare contro le nuvole. Non ti serve di certo affogare la delusione nel vino o nella birra. Il sudore invece dipende da te.

Cristiano Ronaldo è stato quello che il padre non sapeva essere: costanza, sacrificio, forza mentale sovrumana. I malfidati e gli invidiosi l'hanno accusato di essere una macchina, un prodotto di laboratorio, finto, egocentrico, disumano. La realtà è che Ronaldo non è finzione. È l'esatto contrario. È uno che ha dato sostanza alla sua fortuna. È come se quel talento ricevuto per caso avesse bisogno di una legittimazione. L'ha fatto in modo ossessivo, ma non solo per fuggire dalla povertà di Funchal. La madre gli ha regalato l'ambizione e il carattere, il padre è il fantasma a cui restituire la dignità. Sono due modi diversi di amare.

«Ogni volta che vinco qualcosa penso a lui, a José Dinis Aveiro: mio padre».

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