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Il dilemma M5s: stare al governo o farsi esplodere

Il dilemma M5s: stare al governo o farsi esplodere

Il viso è stralunato, lo sguardo disorientato, ma Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa che ha messo in contatto i grillini con l'Università Link Campus guidata da quel vecchio democristiano che è Vincenzo Scotti, dal maestro ha imparato l'antica filosofia dello scudocrociato che recita: si può perdere tutto, pure le elezioni, addirittura la faccia, ma non il governo. «La botta è stata dura - confida - ma la verità è che ci sono rimasti solo i voti dell'ala governativa del movimento. Quelli dell'ala più massimalista già se ne sono andati. Per cui...». Traduzione di quello che appare un monito a Di Maio: hai già perso i voti di Roberto Fico e compagni, se rompi con Salvini rischi di perdere anche gli altri, quelli ammaliati dal governo. Qualche altro passo a Montecitorio e ti imbatti nel vicepresidente grillino della commissione Attività produttive della Camera, Luca Carabetta, che oltre ad essere uno dei «cocchi» della Casaleggio Associati da sempre si autodefinisce democristiano. Non per nulla è un seguace della stessa filosofia di Tofalo. «Ma quale crisi?! Il governo - si infervora - va avanti. Magari faremo qualche aggiustamento per accontentare i colleghi più dubbiosi, ma non altro. Anche perché non è scritto da nessuna parte che Mattarella ci mandi a votare. Ma, soprattutto, perché i voti di chi vuole la crisi, li abbiamo già persi».

Se questi ragionamenti ancora non bastano a capire l'aria che tira tra i grillini, fai quattro chiacchiere anche con Felice Mariani, olimpionico di judo, che è un passo fuori e uno dentro il gruppo pentastellato proprio perché è allergico ad ogni ipotesi di elezioni. «Scherziamo?! Vi pare - spiega - che un partito che ha il 33% dei seggi in Parlamento, rischia le urne per riportarne il 17%. Basta il pallottoliere per capirlo».

Questo è l'approccio con cui i «filogovernativi» dei 5 stelle hanno affrontato la disfatta elettorale. Sono quelli che in fondo in fondo interpretano meglio il pensiero di quel capo, messo in discussione e a rischio crocifissione, che è Giggino Di Maio. Anche lui ripete che «bisogna andare avanti», «rimettersi a lavoro», pungolato dall'anima nera del grillismo di governo, cioè la Casaleggio Associati, che attraverso Davide, l'erede, ha fatto sapere proprio alla vigilia del voto che non ci saranno deroghe sul tetto dei due mandati parlamentari, per cui se qualcuno tra i veterani (Fico compreso) accarezzasse l'idea del voto anticipato, saprebbe fin d'ora che resterebbe fuori dal prossimo Parlamento. Tant'è che capita l'antifona, dentro il movimento c'è chi mette in discussione pure la leadership di Di Maio (Nugnes), ma anche se il malcontento cresce (l'assemblea dei parlamentari è stata rinviata da ieri sera a domani) sono davvero pochi quelli che osano parlare di crisi e tantomeno di elezioni. Semmai la paternità di un simile disegno è rinfacciata all'alleato-avversario. «È Salvini - insinua il sottosegretario all'Economia, Laura Castelli - che vuole rompere su un tema forte e portarci al voto».

Inutile aggiungere che il vincitore delle elezioni, il leghista, dice e immagina l'esatto contrario. Tant'è che da quando le proiezioni hanno ratificato il suo trionfo ripete in tutte le salse che «il governo non cade», che non farà battaglie «per le poltrone», che dai 5 stelle pretende solo dei sì sulle cose da fare. Certo, nel suo partito, da Giorgetti a Zaia, ci sono quelli che farebbero carte false per arrivare al redde rationem con i 5 stelle. Ma la Lega è l'ultimo partito «bolscevico», per cui quello che dice il capo è legge, specie dopo un trionfo elettorale. E il capo ha altri piani. Nella testa di Salvini la tempistica è diversa. Per ora lo scambio con gli alleati prevede che i nuovi equilibri elettorali non scompaginino gli equilibri nel governo, per cui nessun rimpasto; in cambio i grillini lo dovrebbero assecondare sul piano programmatico. Si parte dal prossimo Consiglio dei ministri con decreto Sicurezza bis e con l'autonomia e, poi, si arriverà alla Tav e alla flat tax. Questioni indigeribili per i 5 stelle? Solo a parole: sul decreto Sicurezza Salvini se le deve vedere più con il Quirinale che con loro; sull'autonomia un equilibrio si troverà visto che i grillini raccolsero a suo tempo anche le firme per i referendum nelle regioni interessate. La Tav? Magari, ora che le elezioni sono passate, si svelerà che l'ok, nei fatti, è già stato dato, visto che i bandi per le gare sono partiti e che la trattativa sui costi è con la Ue. Infine la flat tax: inutile dire che l'interlocutore più ostico per Salvini non sono i grillini ma è Bruxelles. «Ora non succederà nulla - scommette il leghista calabrese Domenico Furgiuele - perché la tabella di marcia è diversa: si va avanti con il governo; si fanno le nomine di Eni, Enel, Poste e Leonardo; e ad aprile o giù di lì, si svolgeranno insieme elezioni regionali e politiche». Anche perché il calendario, quello che prevede le elezioni a settembre-ottobre, è scivoloso: Salvini e Di Maio dovrebbero assumersi la responsabilità di far affrontare la trattativa sui commissari Ue a Bruxelles da un governo dimissionario, riducendo a zero la forza contrattuale dell'Italia; affronterebbero un mese periglioso per i mercati come agosto (pochi scambi favoriscono le speculazioni) con un Paese senza guida e in campagna elettorale; ed infine, si appiccicherebbero addosso l'immagine di chi alla vigilia di una legge di Bilancio si tira da parte. Di fatto, sarebbero degli emuli del comandante Schettino.

Senza contare che i due possono rompere solo se hanno una strategia alternativa. Ma entrambi hanno bisogno di tempo. Salvini sa bene che la fine del governo gialloverde spingerebbe i grillini in braccio al Pd. E in quel caso il leader della Lega o dovrebbe accettare rischi e limiti di un'avventura in solitaria con la Meloni, o sarebbe costretto a riaprire un rapporto più stretto con Berlusconi. Ipotesi quest'ultima che per ora scansa o su cui tergiversa: «Mi soffre fisicamente - ha confidato giorni fa il Cav - perché è abituato a confrontarsi con i suoi che non lo contraddicono mai». Di Maio, invece, dopo il voto europeo si ritrova sotto il Pd (il che è tutto dire visto che Zingaretti ha perso 100mila voti rispetto alle ultime Politiche), per cui dovrebbe trattare un'ipotetica alleanza da una posizione di inferiorità. Tant'è che i più convinti assertori della crisi e delle elezioni li trovi proprio nel Pd. «Se i grillini vogliono salvare il salvabile - teorizza Franceschini - debbono rompere. Salvini nella trattativa sui provvedimenti gli alzerà sempre più l'asticella. E se accettassero le sue condizioni, i grillini rischierebbero di evaporare, di fare la fine dell'Uomo qualunque.

Come in fondo sarebbe giusto».

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