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La falange leghista studia la vendetta

La falange leghista studia la vendetta

Nel transatlantico di Montecitorio, l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti tradisce una certa soddisfazione dopo avere ascoltato il premier Giuseppe Conte, che si prepara a portare per la prima volta in un Consiglio europeo il nuovo «verbo pentaleghista».

«Non dovrei rimarcarlo io - spiega - ma Conte poteva tranquillamente dire: Come ha detto in passato Minniti.... I suoi punti, a parte quelli irrealizzabili come gli hotspot in Nord Africa, sono quelli che ho sempre proposto io. Solo che Salvini non può riconoscerlo perché su questi temi ha costruito la sua campagna elettorale. Né i miei, che su quegli argomenti mi hanno crocifisso, ora possono rivendicarli. Poi, al netto dell'ideologia, restano le cose da fare, che si fanno in silenzio: ad esempio, la prima cosa che ti chiedono a Tunisi o al Cairo se vuoi fare dei rimpatri, è la riservatezza. L'opinione pubblica esiste anche lì e se esce la notizia che arriva un aereo con immigrati da rimpatriare, ti circondano l'aeroporto. Anche l'idea che l'Europa ora sia più sensibilizzata sul problema, è una trovata di Salvini. Sono dieci anni che i governi italiani si sentono dire a Bruxelles abbiamo sbagliato a lasciarvi soli, ma poi restano le cose da fare. E se io non l'avessi fatte, gli sbarchi non si sarebbero ridotti dell'85%...».

Ci sono i numeri di un problema e c'è la sua percezione. Ma l'opinione pubblica si forma sulle percezioni. Conseguenza: se Minniti «le cose» doveva farle in silenzio, perché non poteva rivendicarle per non indispettire le culture della sinistra; Salvini, al contrario, può tranquillamente gridarle ai quattro venti, enfatizzarle, dare del «matto» a Macron. E magari, la «percezione» che c'è del problema immigrazione pure negli elettorati degli altri Paesi, li spinge a dare segnali: sul piano delle regole, in vista del Consiglio europeo, poco o nulla, ma intanto Malta accetta l'arrivo della Lifeline, piena di profughi, e il ministro dell'Interno tedesco plaude al sequestro della nave deciso dalle autorità maltesi.

Ed è sulla «percezione» che nasce un'ideologia, quella sovranista, con la sua retorica. Magari agitando l'ipotesi di un veto italiano sulle scelte di Bruxelles, se queste non dovessero piacere a Roma. E già, se prima, quando era di moda l'altra retorica, quella europeista, i contrasti andavano risolti con discrezione, ora, invece, Salvini e i suoi rimarcano ogni dissonanza, ogni diverbio con Bruxelles, anche quando non c'è bisogno, quasi che fossero una medaglia. Sull'immigrazione, ma anche sull'economia. Certo, c'è il premier Conte che su espressa indicazione del Quirinale media con l'Europa: «Devi trovare un compromesso con Bruxelles, perché la politica è l'arte del compromesso», è l'esortazione che è arrivata ieri al capo del governo dal presidente della Repubblica, nella colazione al Quirinale. C'è il ministro Tria, che getta acqua sul fuoco. C'è anche il neo-ministro Paolo Savona, che dovrebbe essere la bestia nera di Bruxelles, che offre, invece, un'idea problematica del rapporto tra il nuovo Parlamento, in cui risalta il colore gialloverde, e l'Ue: «C'è troppa sovrapposizione negli argomenti. Sette risoluzioni alla Camera sono tante! Tanto varrebbe allora sostituire al confronto, il rapporto con un robot e i suoi logaritmi». Ma insieme a loro, ci sono pure Salvini e i leghisti, sempre loro, i veri custodi della retorica sovranista, che ci tengono a rimarcare che l'aria tra Roma e Bruxelles, è cambiata. «La verità - teorizza il presidente della commissione Bilancio della Camera, il leghista Claudio Borghi - è che ci sono state generazioni di politici italiani, che si sono mangiate tante cag... dell'Europa senza rendersene conto: dal Fiscal compact al bail-in. D'ora in avanti non sarà più così: ad esempio, ora Germania e Francia teorizzano il fondo monetario europeo. Cosa significa? Che alla prima tempesta finanziaria, magari provocata ad arte, ci arriva la troika in casa. Se lo scordano!».

E la politica «sovranista-leghista» taglia come un burro, nel rapporto con l'opinione pubblica, le resistenze dei partner di governo, i grillini, e delle opposizioni. Troppo fragili, entrambi, rispetto alla falange «leghista» che dà le carte. Lì dentro c'è un «progetto», magari discutibile, declinato fideisticamente come una nuova ideologia, e un gruppo dirigente, forgiato nelle lotte interne. Racconta Edoardo Rixi, leghista, probabile prossimo viceministro dei Trasporti: «Siamo pronti al confronto con l'Europa, contro quelli che hanno silurato Berlusconi anni fa. La differenza? Salvini, è disposto a rischiare tutto. Mi dice: A me cosa possono fare? Portarmi via la casa? E allora?!. A Berlusconi, invece, potevano portare via le aziende. Ecco Salvini non ha nulla da perdere. Il Cav, invece, sì. Del resto tutta la nuova Lega è il risultato di una battaglia ad alto rischio. Anche con Bossi c'era un cerchio magico. Io non potevo parlare con Matteo, perché sarei stato emarginato. C'era il Kgb. Quindi, siamo abituati a rischiare. Non siamo come Toti, che dentro Forza Italia resta in mezzo al guado. E in politica si vince solo se si rischia. Guardate il vecchio Scajola, che è lontanissimo da me, si è ripreso Imperia con il suo spirito di revanche. Anche lì Toti ha sbagliato: se non riesci a spianarlo, lo inglobi». Echi dell'Arte della guerra di Tzu-Sun. «La differenza tra noi e gli altri?», gli fa eco Nicola Molteni, sottosegretario del Carroccio all'Interno: «Forza Italia e pure i grillini, con la loro democrazia dei clic, sono cooptati. Noi siamo forgiati dalla selezione interna come i partiti del '900».

Appunto, se vuoi competere con la Lega che spadroneggia, devi essere capace di rischiare. Sono disposti a farlo gli altri? «Non credo - risponde un vecchio marpione dc come Pierferdinando Casini, eletto nelle liste piddine -: con Zingaretti, il Pd sembra tornato al D'Alema di venti anni fa». Non parliamo, poi, dei grillini. L'altra sera in un ristorante che si affaccia su piazza delle Coppelle a Roma, chi chiedeva a senatori pentastellati come Nunzio Angiola o Gianmauro Dell'Olio, se il braccio di ferro con i leghisti potrebbe portare alle elezioni, si sentiva rispondere: «Ma no! Noi ci siamo sistemati, non ci muoviamo di qui per dieci anni!».

Così, alla fine, si scopre che l'unico che potrebbe avere il coraggio, di accettare il rischio, di rompere è sempre Salvini. Lo ammette pure Pier Luigi Bersani: «Ho messo l'orecchio a terra - è la sua previsione - e se non ci sbrighiamo l'elettorato leghista e quello grillino si saldano, magari sotto l'egemonia leghista. Ecco perché la sinistra e il Pd debbono dare una sponda ai 5stelle, tirarli dalla loro parte. Sono sicuro che quando la parabola dei sondaggi comincerà a scendere Salvini tenterà di incassare.

A quel punto solo Mattarella e l'ipotesi di un governo pd, sinistra e grillini, potrebbero sbarrargli la strada verso elezioni che ratificherebbero il suo dominio».

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