Cronache

Il fascismo degli antifascisti

Il fascismo degli antifascisti

C’è una lunga coda di paglia nascosta nell’Italia antifascista nata nel secondo dopoguerra e riguarda il suo essere annodata con i fili dell’Italia fascista che l’aveva preceduta. Il fascismo, si sa, non fu l’invasione degli Ixos teorizzata da un Benedetto Croce in libera uscita dalla sua filosofia della storia, ma un qualcosa di più profondo e che, secondo Piero Gobetti, aveva a che fare con una sorta di autobiografia nazionale.

Ciò spiega perché nel primo quindicennio repubblicano, il ricordo di ciò che si era stati e il desiderio di essere qualcosa di diverso trovarono un proprio equilibrio proprio nel fatto che a rappresentare il nuovo c’era spesso e volentieri un laudatore del vecchio, di modo che l’accusa strumentale di fascista rischiava di ricadere sulla testa dell’antifascista di fresco conio che l’aveva pronunciata. Le cose cambiarono quando l’apertura a sinistra dei governi primi anni Sessanta fece del regime fascista non un episodio della storia nazionale italiana, ma lo spartiacque etico-ideologico fra il Bene e il Male. Che a farsene garante ci fosse, in posizione egemone, il più forte Partito comunista d’Occidente, aggiunse al tutto il tocco surreale di un anti-totalitarismo a scartamento ridotto e che marciava su un unico binario, un fascismo antifascista, se si vuole, dove il colore rosso prendeva il posto di quello nero...

Le polemiche di questi giorni intorno alla strada da intitolare a Giorgio Almirante sembrano indicare che, a settant’anni e passa dalla fine del fascismo, il fascismo di fatto non è passato, ma non tanto nella sua realtà storica, quanto nella sua variante di fascismo antifascista che, realtà ideologica, ne ha preso il posto. Si dirà che, nel caso dell’ex segretario del Msi c’è un sorta di damnatio memoriae, il Manifesto della razza, la Repubblica sociale etcetera, ma così dicendo non ci si rende conto della schizofrenia che tutto ciò comporta. Nell’Italia repubblicana, Almirante fu un politico di tutto rispetto, vi trascorse lealmente un arco di tempo più lungo di quello trascorso nel «famigerato» Ventennio, sedette a lungo in Parlamento, vide ai suoi funerali il commosso cordoglio politico dei suoi stessi avversari. È solo la coda di paglia da cui siamo partiti a rendere possibile questa schizofrenia democratica, il fare finta cioè che il fascismo non faccia parte della nostra storia, se non in quell’ottica etico-ideologica di Male assoluto che soddisfa le «anime belle», ma impedisce ogni comprensione su ciò che siamo stati, come popolo, come nazione, e spiega benissimo ciò che siamo diventati: un Paese senza, senza memoria, senza storia.

Va da sé che, applicato in senso più ampio, le arti, l’architettura, la letteratura, la filosofia, l’Italia novecentesca amputata del fascismo che ne fu parte integrante perde molto del suo significato. L’Italia risorgimentale fu, nei confronti dei simboli e delle memorie di ciò che l’aveva preceduta, regni, ducati, persino uno Stato pontificio, e contro ci aveva combattuto, più magnanima, illuminata e lungimirante di quanto ancora oggi ci ostiniamo a fare rispetto al nostro passato più prossimo.

Ma quella era un’Italia in cammino e che credeva in se stessa.

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