Cronache

I genitori al Tar e i figli perfetti «per legge»

Sbigottita. Ecco come mi sono sentita quando sono venuta a conoscenza di questa vicenda che definirei, senza eufemismi alla moda, grottesca. E cioè, come da vocabolario, qualcosa che fa sorridere senza rallegrare. La richiesta al Tar dei genitori di un alunno di terza media di trasformare il nove ottenuto all'esame in un dieci è paradossale (...)

(...) e drammatica. Non oso immaginare a quali «torture» quotidiane sia stato sottoposto questo ragazzino per soddisfare le aspettative di mamma e papà, né alla paura che può aver provato il giorno nel quale avrebbero scoperto il suo «misero» risultato. Una vicenda, questa, che sembra lontana da quella dei genitori che pestano gli insegnanti per una nota data ai figli bulli, ma non lo è. In comune c'è la rottura di una sintonia necessaria tra scuola e famiglia, ma ancora prima la mancanza di rispetto verso i docenti e il loro complesso e delicato ruolo. E allora si arriva a rivolgersi a un Tribunale perché non è ritenuto autorevole il giudizio di un'intera commissione d'esame, sovvertendo perfino le regole matematiche pur di ottenere lo status di «figlio perfetto». Figli obbligati a raggiungere ad ogni costo una perfezione ideale e astratta, lontana dalla vita reale, anche a costo di diventarlo per sentenza. Una sentenza che, per fortuna, non c'è stata. È normale che dai figli ci si aspetti diano il meglio di sé, ma quando quelle aspettative sono eccessive diventano tossiche. Generano un'ansia da prestazione che li accompagnerà per tutta la vita rendendoli fragili e insicuri, incapaci di rialzarsi al minimo fallimento. Il paradosso e la drammaticità di questa vicenda è che il fallimento non c'è. Questo ragazzino ha ottenuto un voto, ma preferirei dire un risultato, che aveva il diritto di festeggiare a testa alta. Invece gli è stato insegnato che è un genio incompreso destinato all'insuccesso per colpa altrui, una vittima del sistema. Gli è stato insegnato che l'impegno non conta, anche quando ce l'hai messo tutto perfino dove hai dei limiti; che nella cultura del perfezionismo e della concorrenza o sei visibilmente meglio degli altri o non vali niente; che quello che conta è vincere a ogni costo. I «figli perfetti» non possono sbagliare e ricominciare sanando lo scarto tra le pretese degli altri e le loro possibilità effettive. Non hanno il beneficio di un abbraccio anche quando le pretese non sono soddisfatte. Ma probabilmente hanno un futuro segnato dalla frustrazione. E da un'idea di sé grandiosa che senza l'ammirazione e il riconoscimento altrui li farà sentire nullità, inconsapevoli che il successo non sempre si vede.

Barbara Benedettelli

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