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I giallorossi e i gialloverdi Colori diversi e stessi vizi

I giallorossi e i gialloverdi Colori diversi e stessi vizi

Un film già visto, quello del governo giallorosso. Già visto solo qualche mese fa, quando un altro esecutivo - quello gialloverde - ha vissuto pericolosamente per oltre un anno lo stesso disequilibrio conflittuale che è poi sfociato nella crisi dello scorso agosto. Al punto che il Conte 1 e il Conte 2 sembrano quasi due governi fotocopia, l'uno la prosecuzione dell'altro. Certo, sono cambiati i «fattori» perché alla Lega è subentrato il Pd. Ma non il «risultato», visto che il livello di tensione resta esattamente lo stesso, come pure lo schema per cui uno degli alleati fa il guastatore (prima era Salvini e ora Di Maio) e l'altro l'incassatore (prima era Di Maio e ora Zingaretti).

Due esecutivi gemelli, tanto che quest'anno è destinato a chiudersi esattamente come il precedente. Quando incomprensioni e guerre di posizioni costrinsero l'esecutivo gialloverde ad approvare la legge di Bilancio solo il 30 di dicembre, a meno di 48 ore dalla ghigliottina dell'esercizio provvisorio. Il governo giallorosso, per non essere da meno, è esattamente sulla stessa strada. E infatti il Senato - quest'anno l'ultima lettura tocca a Palazzo Madama - si sta organizzando per restare aperto tra Natale e Capodanno. Ferie posticipate per i senatori e manovra attesa in aula anche questa volta in zona Cesarini. Segno che la conflittualità e l'incomunicabilità tra gli alleati di governo è esattamente ai livelli dello scorso anno. Se non più alta, visto che il Conte 2 è nato - così è stato argomentato nei giorni in cui il Pd si è dilaniato su quale fosse la giusta scelta da fare - proprio per evitare che scattassero le clausole di salvaguardia se il Paese fosse finito all'esercizio provvisorio.

Nuovo esecutivo, dunque, ma vecchi difetti. Con una simmetria che sembra quasi studiata a tavolino. Per trovare un punto d'incontro serve una lente d'ingrandimento, mentre i temi di scontro sono ognuno un gigantesco pugno nell'occhio. Dal fondo salva Stati alla riforma della prescrizione. Passando per le concessioni autostradali, le nomine Rai, l'accordo per le regionali ormai imminenti in Emilia Romagna e Calabria, la commissione d'inchiesta sul finanziamento a partiti e, infine, l'Ilva. Non c'è terreno su cui M5s e Pd si muovano di comune accordo e senza darsele di santa ragione.

Che poi, in verità, a menare fendenti è sempre e soprattutto Luigi Di Maio, ormai costretto a fare da ministro degli Esteri l'opposizione interna al suo governo nella vana speranza di non perdere le redini di un Movimento che sembra essergli sfuggito di mano. Difficile, infatti, che il seguire pedissequamente lo schema con cui Matteo Salvini ha messo sotto pressione il Conte 1 possa alla fine davvero favorire la sopravvivenza politica di Di Maio.

Il rischio concreto, invece, è che il livello di conflittualità che è stato raggiunto possa da un momento all'altro portare a un improvviso show down. Magari non domani. Più facilmente da gennaio, quando sarà archiviata la legge di Bilancio, oppure a febbraio, dopo il voto in Emilia Romagna e Calabria. E a quel punto, nonostante la spinta autoconservativa di un Parlamento che farà di tutto per arrivare fino al 2023, può succedere di tutto. Lo scenario più probabile resta quello di un cambio della guardia a Palazzo Chigi con la stessa maggioranza M5s-Pd. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero. Soprattutto se fossero veri i rumors che raccontano di un gruppo di senatori grillini già pronti a passare con Salvini. A quel punto partirebbe il contro scouting per trovare altri responsabili - magari dell'attuale centrodestra - che sostengano un nuovo esecutivo senza tornare alle urne. Ma la partita si andrebbe di molto complicando. Non tecnicamente, perché se c'è una qualsiasi maggioranza la Costituzione non lascia dubbi sulla legittimità di un nuovo governo. Ma politicamente.

È sotto questo profilo che sia il M5s che il Pd avrebbero un gigantesco problema di reputazione e credibilità.

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