Cronache

I laureati fanno la fila per diventare sciuscià

I laureati fanno la fila per diventare sciuscià

Nell'Italia distrutta e appena uscita dalla seconda guerra mondiale, gli sciuscià dell'omonimo film di Vittorio De Sica erano minorenni sbandati e abbandonati, in debito e in lotta con la vita. Settant'anni dopo, il bando per 15 lustrascarpe voluto dalla Confartigianato di Palermo vede fra gli oltre 70 candidati al posto molti diplomati e molti laureati. Siamo, o almeno così ci continuano a ripetere fra un referendum, una calamità e un rimpasto di governo, la settima potenza industriale del mondo ed è chiaro quindi che qualcosa non quadra. Mettiamo da parte l'entusiasmo con cui Confartigianato parla del recupero di «antichi mestieri» e della relativa necessità di «corsi di formazione». Vediamo invece l'altro corno del problema, quello di una disoccupazione intellettuale che si ritrova come orizzonte lavorativo, non scelto, la spazzolatura delle scarpe. Lo vogliamo davvero vedere come un recupero della tradizione, un classico simbolo del genio italico? Va bene che facciamo le calzature più belle del mondo, ma non è il caso di esagerare...

Gli scettici che se ne stanno al caldo delle loro confortevoli abitazioni dicono che non è vero che in Italia manchi il lavoro, ma che siano gli italiani, specie i più giovani, a non voler lavorare. Sono schifiltosi, non si rimboccano le maniche, non vogliono sudare. È per questo che i lavori più umili e/o più faticosi li fanno gli extracomunitari. Il cameriere è cingalese, la badante è romena, la domestica è filippina, l'operaio è albanese, l'uomo delle pulizie viene dallo Sri Lanka, il pony express è indiano, il portiere di condominio è cinese, a raccogliere la frutta sono quelli di colore. Ammesso che sia così, il problema è che se tu Stato hai preferito la demagogia della scuola di massa e dell'università di massa, abbassando il livello degli studi e perdendo per strada ogni criterio selettivo; se in nome di un'indistinta modernità hai reso sempre più debole ogni criterio e ogni logica di specializzazione, ponendo le premesse per l'abbandono di tutte quelle formazioni professionali non considerate in linea con un'industrializzazione vista come unico modello di sviluppo, diventa poi difficile dire all'analfabeta intellettuale che è il risultato finale di cinque anni di istituto superiore, si fa per dire, e di tre di corso di laurea, anche qui si fa per dire, che è stato tutto tempo sprecato, abbiamo scherzato e si riparte da zero.

Allo stesso modo, in un'Italia da reality, dove il non sapere fare nulla è considerato un motivo di orgoglio e non di vergogna, visto che se anche si sapesse fare qualcosa sarebbe inutile, dove l'apparenza è di fatto sostanza, l'invasione della mediocrità che vuole diventare famosa proprio perché mediocre, che reclama il successo come le fosse dovuto, diventa irreale richiamarsi a concetti che ormai non hanno più diritto di cittadinanza: senso del dovere, spirito di sacrificio, umiltà, sopportazione. Persi in un modello di sviluppo di cui ci sfuggono i contorni e non sono più certi i fini ultimi, gravati da una crisi del Politico che sotto una contrapposizione fittizia Destra-Sinistra nasconde le medesime difficoltà a dare risposte adeguate, preoccupati da un orizzonte economico sempre più fosco, siamo un Paese che ha rinunciato a essere e si accontenta di esistere.

In un poetico film di Aki Kaurismaki, Miracolo a Le Havre, uscito 5 anni fa, Marcel Marx, un tempo filosofo, fa il lustrascarpe per scelta. Grazie al suo lavoro incontra e protegge un piccolo clandestino, riesce a ricongiungerlo alla famiglia, lotta contro la povertà, l'emarginazione, la cattiveria, la delazione e la repressione. «Il lustrascarpe è, come il pastore, il mestiere più vicino al popolo. Sono i soli che rispettano i precetti del Discorso della montagna» dice il protagonista.

Per ricominciare a dare un senso e un valore agli sciuscià, bisognerebbe cominciare a chiedersi che popolo vogliamo essere.

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