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I passanti indignati

I passanti indignati

Evidentemente le tasse si sono messe da sole. Al governo si sono distratti un attimo con ius soli e Ilva e quando hanno ridato un'occhiata toh, eccole lì, spuntate come porcini, che d'altronde è stagione.

Non si spiega altrimenti il surreale rincorrersi di dichiarazioni da parte di tutti i leader giallo-rossi contro l'aumento della pressione fiscale, che nel 2020 crescerà di due miliardi: Di Maio, Zingaretti, Renzi, perfino Conte, tutti fortemente critici sulla manovra. Come se la cosa non li riguardasse, come se fossero all'opposizione, come se quei 119 articoli il premier e il ministro Gualtieri li avessero ricevuti presso un roveto ardente e fossero solo portatori sani delle Tavole della Legge di Bilancio. Quelle dove nero su bianco c'è scritto: «4,3 miliardi verranno reperiti da un pacchetto di ulteriori misure fiscali».

Senza scomodare la rimozione freudiana, ma rimanendo nel campo della psicanalisi, si chiama «sindrome del passante indignato». Capita a tutti, quando l'umarèll che è in noi ci fa incrociare le mani dietro la schiena, scuotere la testa e commentare il lavoro di altri mormorando che stanno sbagliando tutto, che noi sì l'avremmo fatto bene, signora mia che tempi. Alzi la mano chi ne è immune. Il problema è più serio però se a criticare sono gli stessi che quel lavoro l'hanno firmato. Lì siamo ai limiti della schizofrenia. O della presa in giro.

L'ultimo è stato Conte, prima con un esilarante «appello al Parlamento a ridurre le tasse per raggiungere insieme un risultato ancor più ambizioso». Ma prima era stata la volta di Zingaretti e del suo «bisogna alzare gli stipendi tagliando le tasse sul lavoro»; di Di Maio e del suo «fermi tutti, dalle merendine agli aerei, l'obiettivo è abbassare le tasse, non aumentarle»; di Renzi e della sua proposta «choc» contro «l'invasione fiscale delle microtasse che è un'inspiegabile mazzata alla classe media»; perfino di Leu, che per bocca della sottosegretaria Guerra chiede «interventi fiscali più leggeri e più gradualità sulla lotta al contante». Il premier, i tre segretari dei partiti di maggioranza e la sottosegretaria all'Economia: non esattamente dei peones dell'opposizione.

Verrebbe da fare una domanda: dov'erano, i passanti indignati e benintenzionati fuori tempo massimo, quando il Consiglio dei ministri varava i saldi della manovra «salvo intese»? Dov'erano quando i numeretti - l'unica cosa a non essere opinabile - sancivano che le tasse sarebbero cresciute e si scriveva di stangate su auto aziendali, bevande zuccherate, vincite al gioco, filtri delle sigarette? Banalmente, erano tutti lì. Perché la Legge di Bilancio, a cui lunedì in Aula i partiti di maggioranza hanno presentato ben 1.700 emendamenti su 4.550, ha in calce le loro firme politiche. E l'effetto è quello del tale che disse: «Ne ho prese tante, ma quante gliene ho dette...».

Ecco perché presentarsi ogni giorno come i salvatori dei contribuenti e i paladini no Tax, facendo passare la sterilizzazione dell'aumento Iva pendente dai tempi di Monti come «un'eredità del Papeete e di Salvini», può funzionare per prendersi i titoli dei tg, ma sul lungo è un suicidio. Chi ha in mano le leve del potere non ha il privilegio della contestazione e del mugugno. Tanto vale provare con un'altra tattica, la «strategia della vittima del grizzly»: stare zitti e fingersi esanimi, aspettando che la furia passi.

Sarebbe più intelligente, forse perfino più onorevole.

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