Cronache

"Il mio Mulino bianco e la famiglia perfetta teatro dell'orrore"

"Il mio Mulino bianco e la famiglia perfetta teatro dell'orrore"

Uno stereotipo soffice e burroso di uso quotidiano. E l'incipit di tutte le storie quando la cronaca nera irrompe in quel mondo candido: «Sembrava la famiglia del Mulino bianco». «L'idea - racconta Francesco Alberoni - mi venne nel 1975. Anzi l'invenzione non fu nemmeno mia, ma della Barilla. Avevano per le mani un mulino bianco e volevano abbinarlo al lancio dei biscotti, i frollini che avrebbero segnato per la Barilla una stagione di successi». Il grande sociologo apre la porta dei ricordi: «Cominciamo col dire che in un certo senso io ero sulla strada del Mulino bianco. Mi ero stufato della metropoli e mi ero trasferito a San Felice, un sobborgo fuori Milano».

Un capriccio?

«Per niente. Erano gli anni di piombo, la città trasmetteva insicurezza e paura, le Brigate rosse uccidevano, io ero finito nella lista dei loro bersagli. Cosi scappai da Milano e quella fuga facilitò il mio lavoro».

Dunque, che cosa accadde?

«La Barilla voleva buttarsi sui biscotti e cercava un'immagine forte per il pubblico. La fabbrica non andava bene, loro giravano intorno a quel mulino bianco, ma non sapevano come procedere».

Il suo suggerimento?

«Semplicissimo: offrire un'alternativa al mondo incattivito, a tratti feroce, impoverito dalla crisi petrolifera».

Gli anni Settanta come quelli che viviamo oggi?

«Molto peggio. Molto peggio. C'era un morto al giorno, non solo le storie di nera. Quindi elaborai la risposta a quel dramma: i biscotti sarebbero nati in campagna, in una grande fattoria lombarda o meglio ambientato nell'Olanda del Seicento, quella dei Puritani».

Un luogo immaginario?

«Un luogo del passato. Quando i mulini erano bianchi..., cosi iniziava il racconto che immergeva lo spettatore in un clima permeato dall'etica del lavoro di stampo calvinista. I Puritani erano gente solida, seria, affidabile e vivevano sereni in un piccolo universo in cui non succedeva mai niente. In sintesi erano gli inquilini del paradiso terrestre. Noi descrivevamo queste famiglie: il padre, la madre, i figli».

Oggi fa notizia la distruzione dell'eden. Come a Trento.

«La fiction del Mulino bianco ebbe un successo straordinario fino a diventare uno stereotipo. E alla diffusione del mito contribuì senz'altro Giuseppe Tornatore che, dopo aver vinto l'Oscar nel 1990 con Nuovo cinema paradiso, fu chiamato a girare le storie da portare in televisione. A un certo punto cominciò pure il turismo: la gente andava a Chiusdino, in provincia di Siena, per vedere la location incantata in cui nascevano gli spot».

Qualcuno cominciò a pensare che la famiglia del Mulino bianco esistesse davvero?

«Il sogno diventò un'immagine comune per definire una famiglia perfetta. Quando queste case, all'apparenza senza problemi come a Trento, diventano il teatro dell'orrore e di fatti di sangue, allora si ricorre al Mulino bianco per spiegare quel che in prima battuta sembrava impossibile. Le immagini quando entrano nel linguaggio comune hanno vita loro».

Il mito invece resiste?

«Sì, è un po' americanizzato, ma è sempre quello. C'è Banderas. Con la sua bonomia.

E sul set è arrivata una gallina, ma cambia poco».

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