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Mosca dimostra il flop degli sherpa gialloverdi

Mosca dimostra il flop degli sherpa gialloverdi

In una Roma bruciata dal sole, su via dei Coronari, il regno dell'antiquariato trasformata nell'epoca Raggi in un suk arabo, puoi anche incontrare per caso una delle eminenze dell'establishment italiano, del Deep State, quel Gianni De Gennaro, nel tempo capo della Polizia, capo dei servizi segreti e ora presidente di uno dei gruppi industriali più importanti del sistema economico italiano, Leonardo già Finmeccanica. Nel Palazzo si sentono gli echi della tempesta provocata dall'«affaire russo», dell'ennesimo scontro tra i gialli e i verdi sull'Europa e su Mosca che mette in bilico il governo, e il personaggio, uomo di sistema, è a dir poco perplesso per non dire altro. «C'è da essere solidali con chi assiste a questo spettacolo» è l'ironia con cui introduce una riflessione seria: «Una volta nei gruppi dirigenti del Paese c'era un lessico comune. Uno la poteva pensare anche diversamente, ma in un modo o nell'altro si poteva trovare un punto di incontro. Un compromesso. Ora è molto più difficile». Ed ancora: «Ad esempio, una grande azienda ha bisogno di avere una linea strategica dal governo. Sapere come deve comportarsi con questo o quel Paese. Insomma, avere un indirizzo politico ma adesso». Si tratta di sensibilità politica, di liturgie istituzionali, rituali internazionali: cioè, di quelle stimmate che caratterizzano una classe dirigente, stimmate che nel presente latitano. «Politica ripete l'uomo dell'establishment significa sapere che quando trovi una via sbarrata in Europa, ti conviene in ogni caso votare a favore del presidente della commissione Ue, per non autoisolarti. Tanto non hai più nulla da perdere, per cui lascia agli altri, se hanno il coraggio, la responsabilità di emarginarti».

Classe dirigente. Le ultime puntate della saga gialloverde lasciano basiti. Sul caso Russia e sulla vicenda Ue, lo scontro tra Conte, Salvini e Di Maio è al vetriolo. Tra i leghisti si dice che la misura è colma. Accusa Salvini: «Difficile governare con chi ti insulta». Risponde Di Maio: «Siamo stati colpiti a tradimento. Salvini dica se vuole la crisi». Appunto, per dirla con De Gennaro, c'è un lessico approssimativo, un'ignoranza delle liturgie e del peso delle parole in politica: un tempo non andare a un Consiglio dei ministri tirando in ballo «la fiducia» (Salvini) avrebbe sancito la fine di un'alleanza; ora, invece, si spiega subito dopo con un «ho altro da fare», magari una birretta con gli amici o la passeggiata con la fidanzata. Per cui c'è il rischio che l'epilogo sia dettato dall'imperizia: si romperà anche se non si vuole rompere; non si romperà, anche se si vuole rompere. Pace e Guerra possono essere determinati dagli eventi, non da una regia. Basta elencare i buchi logici che costellano la sceneggiatura della saga gialloverde. Si può arrivare a una crisi alle idi di agosto determinata dagli scontri verbali, mentre sul decreto Sicurezza bis in Parlamento la maggioranza gialloverde è talmente compatta da sembrare una falange? Una contraddizione in termini. Senza contare che un'Italia senza governo rischia di doversi accontentare nel grande risiko delle nomine europee dell'ultimo strapuntino, magari della sedia lasciata vuota dagli altri commensali. Eppoi, se davvero ci fosse la crisi, se davvero ci fossero le elezioni, le potrebbe gestire un governo che ha nel ruolo del ministro dell'Interno, cioè del personaggio che dovrebbe garantire l'imparzialità del voto, il principale dei contendenti, che non solo non riscuote la fiducia dell'opposizione, ma neppure, a sentire gli insulti di oggi, quella dei partner di governo? O sarebbe necessario dar vita ad un altro esecutivo elettorale che il presidente dovrebbe mandare davanti alle Camere, dove c'è una maggioranza di parlamentari che è pronta a dare la fiducia a qualunque premier, anche al turista giapponese che passa per caso su piazza Montecitorio, pur di non andare al voto? Altro che tempistiche, altro che finestre! Forse per i leader gialloverdi si tratta, come direbbe Totò, di quisquilie, che alla prova dei fatti però si trasformerebbero in spine. Solo che la loro «imperizia» disorienta tutti. Ieri Niccolò Ghedini dava le elezioni per sicure. Mentre Zingaretti ha bloccato per il momento la mozione di sfiducia del Pd a Salvini: «Inutile farla è stata il messaggio laconico del segretario visto che forse c'è la crisi».

Una classe di governo così, gioca col fuoco. Un gioco pericoloso perché le dita rischia di bruciarsele il Paese. Come a Bruxelles. Osserva Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil e oggi deputato Leu: «Proprio non ho capito Salvini sulla presidenza della Commissione Ue. Ma come, lo stesso Orban vota la Ursula von der Leyen, pure i grillini la votano e lui no? Incomprensibile. Non so chi lo abbia relazionato da Strasburgo. Con il consenso che ha, avrebbe bisogno di un gruppo dirigente all'altezza, che non ha. Ha il difetto dei leader che si fidano solo dei fedelissimi. Non ha nessuno di valore attorno. Solo Savona, ma l'ha dovuto pescare dalla Prima Repubblica».

Risultato: la Lega rischia di non avere il commissario Ue (ieri Giorgetti è salito al Quirinale per ritirare la sua candidatura e per avere la garanzia delle elezioni in caso di crisi) e l'Italia di perdere una poltrona strategica come quella per la «concorrenza». Fin qui la Ue, ma scendendo fino ai gradini più bassi, il «deficit» di classe dirigente per Salvini è un tallone di Achille. L'«affaire russo» ne è la riprova. I personaggi della spy story sono da operetta. Ieri il capogruppo dei deputati leghisti ha dato del potenziale «millantatore» a Gianluca Savoini in Tv. «Quel Gianluca Meranda, che è di Cosenza come me, è un esaltato» è il giudizio dell'azzurro Roberto Occhiuto, mentre il piddino Francesco Boccia racconta un aneddoto su questo protagonista dell'affaire russo: «Nel 2018 Meranda mi telefonò e mi chiese se mi ricordavo che nel 2006 ad una riunione su Alitalia a Palazzo Chigi, lui era fiduciario dell'Iran-airlines. Gli risposi in malo modo: come potevo ricordarmi i partecipanti di una riunione di 12 anni prima! Alla fine mi fece convocare dal magistrato e così feci una ricerca sui verbali di quella riunione e c'era davvero. Mi chiedo: ma uno che tratta affari nel settore petrolifero per 65 milioni di euro, fa una causa di lavoro all'Iran-airlines!? Questo per dire il livello. Se poi rifletti sul fatto che questi personaggi scelgono per un incontro così delicato il Metropol di Mosca, dove ad ogni tavolino c'è una cimice e su ogni divano una puttana del vecchio Kgb, comprendi che sono solo dei folli».

Folli che, però, provocano grossi guai. «Noi abbiamo bisogno di rinnovare confida a mezza bocca, Andrea Crippa, neo vicesegretario della Lega per avere una classe dirigente che sia all'altezza del 40% di italiani che rappresentiamo.

Che sappia guidare una Ferrari e non il triciclo che eravamo!».

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