Politica

Né idee né Iva: si discute solo delle poltrone

Né idee né Iva: si discute solo delle poltrone

C'è un unico aspetto di stabilità nella crisi più schizofrenica della storia repubblicana: si possono far cadere i governi col mojito in mano, sfiduciare un premier e poi chiedere di tornare alleati, mentire al Quirinale, ma - sempre e comunque - le sante alleanze nascono per prendere e mantenere il potere, però ammantate di nobili intenti. L'alleanza Pd-M5s non fa eccezione. E dopo infinite facce e parole di circostanza, finalmente ha mostrato che l'unico nodo vero è sulle poltrone.

L'elettore italiano ha perso l'innocenza da parecchio e non si aspetta dalla politica la cruda verità. Tollera una certa dose di ipocrisia e tatticismi, ma tende a indispettirsi se trattato alla stregua di un babbeo incapace di intendere. La sensazione è che Partito democratico e Movimento 5 stelle stiano facendo questo errore.

Il problema era comune: come presentare alle rispettive basi un matrimonio indigeribile dopo anni di accuse reciproche, disprezzo e una sostanziale incompatibilità genetica fra anti-politica e politica tradizionale? Serviva una narrazione condivisa, una grandiosa architettura ideale che coprisse le deboli fondamenta - legittime ma piuttosto grette - di chi non vuole mollare il governo e di chi vuole arrivarci.

L'inizio degli abboccamenti era stato all'insegna della difesa delle tasche degli italiani. Andare al voto avrebbe fatto scattare l'aumento dell'Iva, con conseguente batosta sui bilanci familiari, sui consumi, sui commercianti. Come se il M5s non fosse al governo mentre 6.500 imprese artigiane chiudevano nel 2019 anche senza l'Iva maggiorata. Come se il Pd non avesse avuto a disposizione tre premier (Letta, Renzi e Gentiloni) per cambiare le clausole. Improvvisamente l'Iva faceva paura più della Wehrmacht, un nuovo Cln era assolutamente necessario.

La mobilitazione è durata 36 ore, più o meno. Poi forse le clausole di salvaguardia si sono disinnescate da sole, perché d'un tratto più nessuno ne ha parlato. Addirittura il ministro dell'Economia Tria ha dichiarato che il deficit migliora, i nostri conti stanno benone e non ci saranno problemi a evitare l'aumento Iva. O nessuno l'aveva avvisato che demolire l'alibi principe dell'unione giallorossa non era una buona idea, oppure gli stessi alleati si erano scordati della scusa inventata.

Probabilmente perché ne avevano già pronta un'altra, ovvero quella del programma. «Prima i contenuti» è il nuovo «sono a disposizione del mister», il mantra che ogni calciatore, furioso per la panchina, ripete sorridente davanti ai microfoni. Ecco allora che fra dem e grillini è iniziata la seconda fase, quella missionaria nel senso più alto della parola. Una pletora di aspirazioni e punti più astratti di un Mondrian, riforme che cambierebbero il Paese ma forse anche il mondo: ecosostenibilità, difesa dei redditi bassi, centralità del Parlamento, investimenti per il Sud (è da Giolitti che se ne discute), sburocratizzazione e tagli ai costi della politica, l'ariete della demagogia.

Il taglio dei parlamentari è stato il tema indifferibile del primo incontro, una questione di così capitale importanza che per un paio di giorni tutti hanno pensato che sarebbe bastato quello per far ripartire il Pil. Due riunioni, quattro dichiarazioni sul «clima costruttivo» e nessuno ne ha più parlato. Perché nel frattempo la realtà era sempre più difficile da mascherare.

Sosteneva Andreotti che «chi parla molto di etica poi non ha il tempo di praticarla». Sinistra e 5 Stelle hanno così insistito sulla dottrina che non hanno avuto il tempo di innalzarsi dalla semplice liturgia del potere. E quando è emerso che la questione chiave del mercanteggiamento era solo il nome del premier, la cattedrale di buone intenzioni è crollata.

È stato fra venerdì e sabato, quando il M5s ha posto l'ultimatum su Conte e il Pd ha cercato di resistere, ordendo però in silenzio il piano B che sta prendendo vita in queste ore. E che prevede in cambio del via libera su Conte una forte rappresentanza ministeriale dem («quasi un monocolore», sostiene una fonte interna poi smentita con poca convinzione). Fine dello slancio ideale e della comunione di vedute «della svolta». È un combattimento fra galli per chi può mostrare i bargigli più rossi, tutto qui. Niente di nuovo né di più scandaloso del passato, se entrambi i galli non avessero recitato la parte di chi vola alto come le aquile.

Come nel pessimismo leopardiano, ci sono tre fasi di disillusione anche nella nascita di ogni governo. Prima crollano gli ideali, poi le idee, infine le scuse.

Se tutto questo crolla nel giro della prima settimana di nozze, è difficile pensare che non farà la stessa fine anche il neonato governo.

Commenti