Cronache

La cucina borghese ha perso quota Ma si salva il cioccolato

Poco tenero il filetto. Sempre uguali le guarnizioni di pomodorini e cartoccio di porcini: non c'è ingegno

La cucina borghese ha perso quota Ma si salva il cioccolato

Non c'è più la borghesia di una volta e nemmeno il San Domenico di una volta. Piange il cuore dirlo, ma è così. Sto parlando di un monumento della ristorazione italiana: alla fine degli anni Settanta era uno dei primi cinque ristoranti d'Italia, assieme a Cantarelli, Guido, Locanda di Ameglia e Gualtiero Marchesi. Di questi, il San Domenico era appunto il più borghese di tutti e dovrei specificare alto-borghese, quasi viscontiano negli arredi e si capisce, il colto ed elegante patron Gianluigi Morini, quasi un conte Nuvoletti della ristorazione, aveva studiato al Centro sperimentale di cinematografia. Chissà se la cucina dell'epoca era all'altezza dei voluttuosi divanetti di cuoio. È probabile, perché ancora vi regnava Nino Bergese, sommo cuoco piemontese che prima del conflitto aveva cucinato per la borghesia altissima così come per l'aristocrazia, perfino per i Savoia. Ma il tempo è passato, sia per la borghesia italiana, piegata dalle tasse e dalla crisi, sia per Imola che nel 2007 ha perso contemporaneamente Formula Uno ed Heineken Jammin' Festival (la clientela di Caparezza e Marilyn Manson non è precisamente quella del San Domenico ma erano comunque soldi che entravano in città e quindi nel ristorante), sia per Gianluigi Morini che ormai va per gli ottant'anni e che domenica scorsa, a pranzo, nel locale da lui fondato, purtroppo non c'era. Ed è stato proprio lui a scrivere nel suo «A tavola al San Domenico» che «in ristoranti come il nostro la presenza fisica del padrone di casa è poco meno che indispensabile».

Che poi il ristorante era pieno e forse è solo l'Incontentabile, appunto perché tale, a leggere cattivi presagi nei piatti gustati. Un paio di amiche che hanno mangiato a Imola recentemente non hanno notato cedimenti e ne parlano con intatta ammirazione. Ma se domenica il lussuoso uovo in raviolo (con burro di malga, parmigiano e tartufo) era all'altezza delle aspettative, gli gnocchi di patate «Rossa di Imola» con ragù di crostacei si giustificavano solo per la suggestione autoctonista ed erano per giunta umiliati da un piatto a onde, quattro onde per la precisione, un'onda per ogni angolo a formare una stoviglia dal kitsch abbastanza terrificante, degna di uno stabilimento balneare di Viserba. Con la differenza che negli stabilimenti balneari di Viserba non si spendono quei 200 euri a testa che sono da mettere in conto per una visita al pluristellato di Imola. Contribuiscono validamente al conto i ricarichi dei vini, anch'essi abbastanza terrificanti: il buon Sangiovese Petrignone 2010 (azienda Tre Monti) viene messo a euri 75, ed è una delle bottiglie più economiche di una carta che vai in rosso solo a guardarla. Sarà che l'Incontentabile è un lambruschista, abituato a pagare (in enoteca, certo, non al ristorante) meno di dieci euri vini senza eguali come il Vigneto Enrico Cialdini di Chiarli o il Calanchi di Monte delle Vigne. Ma questo è un altro discorso, non si può rinfacciare al San Domenico di non educare al grande lambrusco, sarebbe già qualcosa se lo facessero i ristoranti emiliani. Aperta parentesi: Imola è al confine con l'Emilia ma non è in Emilia, è in Romagna. È la piccola città del grande storico della gastronomia Massimo Montanari e del grande storico della musica Piero Buscaroli, insomma un bel posto edonistico e questo da sempre siccome un antico proverbio romagnolo, tradotto in italiano, fa così: «Rimini per navigare, Cesena per cantare, Forlì per ballare, Ravenna per mangiare, Lugo per imbrogliare, Faenza per lavorare, Imola per far l'amore». Non a caso proprio Morini, nel succitato volume, ha scritto che «il vino, come certe belle signore, ama soprattutto due cose: starsene in penombra e coricato». A proposito di piaceri della carne ecco i secondi, che però tanto piacevoli non sono. Il filetto di vitello (servito con guarnizione di pomodorini e cartoccio di porcini) è il filetto più pieno di tessuto connettivo che l'Incontentabile ricordi. Quasi una contraddizione in termini. E allora c'è un problema di materia prima o un problema di cottura o tutti e due. E pensare che oggi con la cottura a bassa temperatura si rendono tenere le suole da scarpe: ma bisogna impararla. Va un poco meglio la sella di maialino di razza romagnola, anch'essa servita con guarnizione di pomodorini e cartoccio di porcini: ma cos'è questa monotonia? Questa impressione di catena di montaggio? Dall'alta cucina ci si aspetta varietà, curiosità, ingegno, non lo stesso pomodorino e lo stesso porcino gettati addosso a ogni pezzo di carne che passa in cucina. Pertanto il cuoco delle carni è da bocciare, il cuoco dei primi da rivedere, si salva solo il cuoco dei dolci ossia il pasticciere: alla cioccolatosa torta fiorentina di Nino Bergese, che tanto piacque a Umberto di Savoia (pretese il tris), l'Incontentabile non riesce a trovare difetti, così come alla piccola pasticceria. Non c'è più la borghesia di una volta né il San Domenico di una volta: consoliamoci col cioccolato che quello non tradisce.

 

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