Cronache

Poco ossigeno e pochi kamikaze

Poco ossigeno e pochi kamikaze

Alla fine anche l'ottimista per eccellenza sulle sorti del governo giallorosso, il capogruppo di Liberi e uguali Federico Fornaro, ha cominciato a vacillare. «Sta cominciando a mancare l'ossigeno - osserva preoccupato in mezzo al Transatlantico di Montecitorio - e allora il cervello non funziona. Alla fine vuoi o non vuoi devi aprire la finestra».

Quella che descrive Fornaro, anche se è solo la sensazione di chi vive H24 nelle aule parlamentari è un segnale importante, visto che il personaggio è alquanto pragmatico. E nel suo lessico «l'apertura della finestra» non è altro che il possibile sbocco di un'insostenibile situazione: si chiami crisi di governo o elezioni.

Una sensazione che ha contagiato anche l'artefice dell'operazione che quest'estate ha fatto nascere il governo giallorosso, cioè Matteo Renzi. «Io volevo, e vorrei - ha spiegato ai suoi - arrivare fino alle Regionali e poi registrare il tutto per tirare avanti fino al 2023. Se, però, debbo prendermi tutta la merda per gli errori che fanno gli altri, allora preferisco fare la guerra a Salvini dall'opposizione. Il problema vero è che non hai interlocutori: i 5stelle sono dilaniati; Conte è in mano a Casalino; il Pd pensa solo a spararmi addosso. Allora sai che vi dico? Io ci metto un quarto d'ora a cambiare spartito. Anche perché io ad accettare il reddito di cittadinanza, Quota 100, le tasse anche micro micro o l'abolizione della prescrizione, non gliela fò!». Né tantomeno (...)

(...) i suoi interlocutori debbono pensare che le vicende che lo hanno coinvolto, cioè la Fondazione Open e dintorni, possano essere considerate la pistola alla tempia con cui tenerlo buono. «Commetterebbero un fatale errore - ha fatto presente Renzi al suo inner circle - se pensassero che io abbia paura, che possa essere intimidito. Semmai sono ancora più incazzato. E sicuramente con un esecutivo che si muove in questo modo, non ho per nulla voglia di mettermi sulle spalle tutto il peso della governabilità. Così non si va avanti...».

Insomma, l'aria non è buona, ma il paziente zero, il focolaio del virus che potrebbe far morire il governo giallorosso, non è Renzi, né Liberi e uguali, né il Pd, semmai è lo stesso che ha liquidato l'esperienza gialloverde: l'instabilità grillina e le mosse contraddittorie e incomprensibili del suo leader Giggino Di Maio, i suoi ultimatum al governo, i suoi occhiolini a Salvini. Perché se gli atteggiamenti e i comportamenti degli altri partiti della maggioranza sono intellegibili, quelli di Di Maio sono oscuri. Ma, soprattutto, sono il segno di un lessico, di una sensibilità, di una cultura politica e di governo lontana anni luce da quella che in un modo o nell'altro appartiene agli altri soci della maggioranza. «Vedete - osserva pensieroso Pierluigi Bersani - un governo può cadere, ci mancherebbe altro! Ma se cade sull'Europa allora ci facciamo davvero tutti male. Qui finiamo davvero per uscire dalla Ue. Di Maio? Se restiamo alla politica e non utilizziamo la psicoanalisi, quello che manca ai 5stelle è il meccanismo per decidere. Fin dall'antica Grecia la politica è fatta di discussioni, di confronti, ma alla fine si alza la mano e si decide. Loro, invece, restano nel limbo. O altrimenti si rivolgono a Grillo, come gli antichi greci agli dei, per avere un segno subliminale che gli indichi la strada».

È chiaro che una condizione del genere potrebbe logorare anche il migliore degli esecutivi: c'è il capo del partito di maggioranza relativa che sui nodi spinosi si ripara, sempre e comunque, dietro al «paravento», «i miei non mi seguono»; nel contempo, i «seguaci» non hanno neppure gli strumenti per decidere. Delle due l'una: o siamo alla follia, o siamo agli alibi. O i grillini non sono nelle condizioni di governare con nessuno. O i comportamenti di Di Maio nascondono una precisa regia per demolire l'alleanza con il Pd (una formula che il leader grillino ha accettato per forza) e tornare alla vecchia passione per Salvini. Una doppia capriola mortale, di difficile esecuzione, che potrebbe avere come sbocco il voto.

Che governo e legislatura siano condizionati da questo dilemma ormai se ne sono accorti tutti, nel movimento e fuori. Solo che nessuno dentro i 5stelle è disposto a rischiare l'osso del collo per riaprire il feeling con la Lega. L'istinto di sopravvivenza potrebbe portare la stragrande maggioranza dei parlamentari grillini a qualunque scelta pur di evitare le urne. Anche a cambiare leader. Questo è il minimo comun denominatore di tutte le anime stellate, dai «governativi» ai «fichiani». Spiega Luca Carabetta, golfista a 5stelle, equilibrato e metodico: «Il 98% dei parlamentari grillini non vuole le elezioni. Il 2% non lo dice solo perché sa che gli altri non le vogliono. L'unico che è per il voto è Paragone, ma non per candidarsi con noi. Cito l'arte della guerra di Sun Tzu: Bisogna combattere solo le guerre che si sa di poter vincere». Traduzione: se Di Maio avesse in mente una strategia che rischia di portare al voto, si fa male.

Confida Gianfranco Di Sarno, dimaiano doc con un pedigree di destra come Giggino: «Io sono con lui, ma se Di Maio ci porta alle urne si ritrova da solo. Leali sì, kamikaze no!». E proprio il rischio elettorale, la paura che Di Maio non escluda quella opzione, sta mettendo in moto il movimento e facendo uscire allo scoperto chi vuole un cambio al vertice. «Proprio per evitare questo pericolo ci dobbiamo sbrigare...» ammette Davide Crippa, già candidato al ruolo di capogruppo, un'elezione che continua ad andare a vuoto, sintomo evidente del malessere grillino: «E comunque il binomio Salvini-Di Maio non ricapiterà». Inutile dire che dentro il governo questa prospettiva è vista come una mezza barzelletta. «Farebbe ridere», taglia corto il ministro grillino per i Rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà.

Solo che l'ipotesi aleggia. O almeno Salvini la fa aleggiare per alimentare il caos, con tutti gli appelli a Di Maio sul Mes. Così i 5stelle fatalmente si ritrovano sulla linea del fronte: sono loro il lato debole della maggioranza. Tutti guardano a ciò che succede là. «È più probabile - prevede la piddina Debora Serracchiani, con l'aria di chi la sa lunga - che i 5stelle cambino leadership che non le elezioni. È già pronto Patuanelli. Senza contare che Grillo ha già dato a Di Maio i due mesi». Mentre sul versante opposto, i leghisti, almeno quelli più realisti, immaginano un'altra prospettiva. «Questi - spiega Riccardo Marchetti, artefice della vittoria del Carroccio in Umbria - alle elezioni non ci vanno, ma c'è una lista di parlamentari grillini alla Camera e al Senato pronta a fare un governo con il centrodestra».

Per cui governo e legislatura sono appesi all'istinto di sopravvivenza grillino. «Bisogna mettere nel conto - ha osservato con i suoi Dario Franceschini - che di Maio tirerà la corda, senza spezzarla, fino a gennaio. Ma se tenterà di strappare i suoi glielo impediranno: i grillini saranno pure folli, ma non al punto da accettare un suicidio collettivo».

Augusto Minzolini

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