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Pressing renziano su Zingaretti

Pressing renziano su Zingaretti

Nella crisi di governo, come nelle gare del ciclismo su pista, siamo al surplace. Bloccati da due giorni sul tema Di Maio vicepremier, o no. E stiamo parlando solo del vicepremierato, visto che il leader politico dei 5 stelle, l'ha comunicato a Giuseppe Conte in persona, non vuole che quel ruolo sia accompagnato da un ministero di peso, gli basterebbe la delega al Sud o l'ipotetico ministero per l'Innovazione. Addirittura i «boatos» raccontano che il vertice grillino sarebbe pronto a cedere due «ministeri pesanti» fuori quota al Pd, pur di avere il vicepremierato per Giggino. Eppure l'amletico Pd di Zingaretti si attorciglia ancora sulla decisione, soppesando e risoppesando la posta in gioco, i segnali internazionali (l'altro ieri Paolo Gentiloni, a quanto pare, ha ricevuto una telefonata da Fräu Merkel che gli ha caldeggiato il nascituro governo Conte), la reazione dei mercati.

Come al solito, nel Pd ci sono due scuole di pensiero: quella che si è formata alla storia democristiana che avrebbe detto «sì» da un pezzo, accompagnando Conte con due vicepremier, Franceschini e Di Maio; e quella post-comunista che si trastulla sul concetto di «discontinuità», che ricorda il dibattito di una coppia di coniugi davanti al salumiere sul dilemma se il prosciutto deve essere tagliato sottile, o no. Per dirla tutta, i discendenti dei dc per scongiurare un avvitamento della «crisi» sarebbero pronti già da un pezzo a pronunciare il loro «sì» pubblicamente. «La posta in gioco è troppo alta - ha fatto presente Matteo Renzi - per cui se bisogna dire un sì a Di Maio vicepremier per far partire il governo e renderlo più forte, non mi sembra un grosso problema». Sullo stesso schema ragionano, con toni diversi, personaggi come Dario Franceschini e Graziano Delrio. E non bisogna meravigliarsene, dato che nel manuale Cencelli, la Bibbia democristiana per la suddivisione delle poltrone, se il Viminale equivale a 5 ministeri, il vicepremierato conta poco più di zero sul piano del potere. Nei fatti si tratta solo del ruolo di capodelegazione di uno dei partiti della coalizione: molta visibilità, ma poco più di un piccolo strapuntino nella stanza dei bottoni.

L'altra scuola, però, quella di Zingaretti e della sua corte cresciuta all'ombra non tanto del Pci quanto dei Ds, da questo orecchio non ci sente. Il problema più che politico, è psicologico: se Di Maio ha una «dignità» da difendere, Zingaretti ha una «faccia» da non perdere. Breve excursus: il segretario del Pd era partito per andare alle elezioni, poi ha dovuto accettare l'idea di fare un governo. Non voleva Conte premier e alla fine lo ha subito. Su Di Maio vicepremier aveva pronunciato un altro «no» e ora l'ultima metamorfosi in un «sì» comincia a costargli troppo. «Il problema di Zingaretti - osserva Loredana De Petris, di Liberi e uguali - è che arriva tardi. Renzi a me e Errani aveva prospettato un governo con i 5 stelle già un mese fa, davanti a un ascensore al Senato. Il Zinga, invece, se n'è accorto tardi. Non ha il senso della posizione in politica. Gioca come se fosse ancora nel campetto da calcetto della Regione...». Solo che per il segretario del Pd adesso sarebbe complicato, anche se volesse, bloccare il treno del governo o farlo deragliare: si assumerebbe una responsabilità enorme di fronte ai suoi interlocutori internazionali, ai mercati e aprirebbe la strada alla vittoria di Salvini alle elezioni. Inoltre se l'obiettivo del segretario del Pd è un esecutivo che duri, farlo partire con una «mina vagante» di nome Di Maio, senza coinvolgerlo con un ruolo importante e umiliandolo, può rivelarsi un atteggiamento a dir poco sbadato. Così Zingaretti si barcamena. E quando qualcuno gli chiede se non è stanco dei continui bracci di ferro, risponde a mezza bocca: «Io avrei voluto rompere, ma poi Mattarella...». In fondo il presidente è una scusa buona per ogni occasione.

La verità è un'altra e va ricercata nella storia: ci sarà un motivo se su 29 capi del governo che si sono succeduti in più di 70 anni di Repubblica, 16 sono stati democristiani, a cui se ne aggiungono altri tre che hanno frequentato la scuola di quel partito (da Romano Prodi ad Enrico Letta, a Matteo Renzi) e magari pure Silvio Berlusconi, che racconta di avere attaccato i manifesti per la Dc nel '48. E, invece, di ex comunista, ne abbiamo avuto uno solo, cioè Massimo D'Alema, e anche quest'ultimo, a quanto pare, per dimostrare che viene dal Pci e non dai Ds, ha fatto sapere che se ne infischierebbe se per avere il governo Conte si rendesse necessario nominare Giggino Di Maio vicepremier. Ricordi storici che, però, non servono a niente. Per ora il rebus spinoso resta insoluto. Il Pd ha dato assicurazioni sul piano programmatico (blocco delle trivelle, approvazione in tempi brevi alla Camera della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari), ma sul futuro di Di Maio tutto resta bloccato.

Ieri Conte è salito addirittura su al Quirinale per avere conforto, sperando magari in cuor suo in un intervento di Mattarella su Zingaretti per risolvere «il caso». Ma il capo dello Stato, che è cominciato a entrare nel mirino di un Salvini sempre più furioso, è rimasto sulle sue: «Dovete sbrigarvela voi. Non mi mettete in mezzo e fate presto». Per cui c'è il rischio che domani si arrivi alla fatidica consultazione della piattaforma Rousseau con la spinosa questione ancora in ballo. Inoltre, l'impasse sta autorizzando Conte, che non si sente garantito dai partiti, ad aumentare la sua sfera di autonomia. Atteggiamento che accresce la diffidenza di Di Maio e di Zingaretti, anche se tutti sono consapevoli che se il governo non andasse in porto Salvini da folle si trasformerebbe in un genio e loro da persone normali in mentecatti. Una maggiore autonomia che spinge il premier a prodursi in dissertazioni spericolate sui possibili ministri. Per la Difesa immagina il suo consigliere militare a Palazzo Chigi. Per il Viminale, addirittura, il suo conterraneo, il governatore della Puglia Michele Emiliano. Probabilmente si tratta solo di boutade, enfatizzate nei corridoi del Palazzo, ma danno l'idea che più trascorrono i giorni e più sulle caselle dei ministri potrebbero innescarsi nuovi bracci di ferro. Motivo per cui molti vorrebbero fare presto, vorrebbero che Conte al massimo mercoledì salisse al Colle con «la lista».

E forse non si rattristerebbero troppo, se nella sua nuova vena bonapartista, Conte tagliasse il nodo gordiano a suo modo: «Non vogliono due vicepremier, allora non ce ne sarà nessuno».

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